Da Readaction magazine del 9 aprile 2022
Su “Il tornello dei dileggi”, di Salvatore Massimo Fazio
A cura di Paolo Pera
Avverto, per sola correttezza, che – come si usa dire da un certo tempo ad oggi – questa noticina farà spoiler, quindi chiunque dovesse ancora leggere il romanzo di Salvatore Massimo Fazio, Il tornello dei dileggi (Arkadia, 2021), è pregato di inoltrarsi in queste righe successivamente.
Proprio dal finale partirei – sperando di non essere banale – per lamentare, se così posso, la mia incredulità assoluta: arrivare al culmine, all’unico vero climax del libro, climax decisivo e conclusivo (dopo una narrazione oscillante tra il resoconto di un’ordinaria quotidianità, di svariati “disturbi d’amore”, di lucubrazioni psicologiche, ecc.
Il tutto tempestato da clamorosi “tradimenti” che l’autore si concede appositamente, a mio giudizio, per lasciar intendere che in qualche modo il Paolo del suo racconto altri non sia che egli stesso; entrambi infatti avrebbero teorizzato il nichilismo cognitivo, per esempio) dà un senso che potrei riassumere con questa frase: «Dov’ero prima d’ora?», in chiusura il Fazio del Tornello rivela infatti d’essersi stabilmente trapiantato nella misteriosa (e, alla fin fine, brutterella) Torino, ciò pure per amore di Giovanna, con lui genitore di quell’Adriana che per l’intero volume venne presentata quale passione bruciante del protagonista.
Questi era dunque innamorato della figlia?
Mumble mumble… Invero Adriana – per la quale Giovanna venne lasciata – sarebbe tragicamente morta suicida, e d’allora in poi Paolo (quest’antieroico eroe faziano) ne viene visitato tra sogni dolorosi e deliranti.
Esso si sveglia così ogni notte solo per darsi pace della propria perdita, ritentando forse il sonno. L’accenno para-incestuoso un po’ sconvolge in Paolo, quasi questa ragazza dovesse in qualche modo vivere comunque la propria vita sottraendo chete all’unico uomo disposto a donarsi e a sacrificarsi oniricamente per lei.
In questo senso di incesto non si tratterebbe, ma – molto teneramente – Paolo diverrebbe l’uomo giusto, amatissimo e innamoratissimo, di una figlia a cui questa Bellezza mancherà in eterno.
Quanta dolcezza e tristezza a un tempo, allora… Oltre a ciò, un altro sentimento affiora in noi – nettamente in contrasto con quanto appena scritto –: l’essere stati “derisi” per una novantina di pagine, pagine che ci diedero a bere d’essere dinnanzi a una comune storia d’amore per poi rimanerne spiazzati, se non lacerati dall’angoscia e dal dramma insuperabile dell’insonne voce narrante.
Quindi un girotondo, un entrare e uscire dai soliti fatterelli che fa però piombare in un amaro colpo di scena, tanto amaro da farci nascere in viso un sorriso autoderisorio, come a dire: «Pirla io che ci ho creduto!», così come Paolo, che ogni notte crede d’essere follemente innamorato (sebbene appesantito pure da riserve razionali) della donna che sua figlia avrebbe dovuto essere; quasi una punizione, non sappiamo quanto meritata, nel “Tartaro terrestre”.
Sarà forse questo il maggior dileggio che il titolo promette?
Dileggio lievemente sadico se consideriamo l’atto d’aver tenuto il lettore in una sospensione che solo in conclusione risulta realmente onirica, rapsodica in un certo qual modo, ma pure amplificatrice di minuzie come la bontà della pasta coi ricci di mare; sospensione, quasi un eterno ritorno, che altrimenti non avrebbe avuto spiegazione.