Menu

SMF su everydayis1989 – Stefano Andretta racconta Spontini: «Addio Lello, non mi mancherai»

17 Giugno 2021 - Articoli su S.M. Fazio, DIGRESSIONI
SMF su everydayis1989 – Stefano Andretta racconta Spontini: «Addio Lello, non mi mancherai»

Da Everydayis1989.wordpress.com

Stefano Andretta racconta Spontini: «Addio Lello, non mi mancherai»

Introduzione di Cateno Tempio

È difficile capire una persona, figurarsi due. Stefano Andretta e Lello Spontini sono come Paperino e Paperinik andati a male, sprofondati in un abisso di ipocondria da palcoscenico e narcisismo di ritorno. (Mi scappa un sorriso a pensare che seguendo la similitudine Pelio sarebbe Archimede Pitagorico.) Il miracolo di Lello Spontini è che funziona, dentro e fuori dalla scena, dentro e fuori dalla musica, probabilmente suo malgrado.
Il 5 gennaio del 2020, in occasione di una serata al Baraccio di Catania organizzata dalla Golden Catrame, Lello Spontini in accappatoio e occhiali da sole, non so più come, si ritrovò a parlare al telefono con mia madre che pensava di avere che fare con Stefano Andretta e finì col non capirci più niente. Così mi pare che siamo tutti noi nei confronti del fenomeno Andretta e dell’epifenomeno Spontini: non ci capiamo niente. Dopo alcune serate è capitato che mi fosse stato chiesto se Stefano ci è o ci fa. La domanda è mal posta, amici miei. Noi cerchiamo un’interiorità, una sostanza nascosta, un noumeno dietro il fenomeno. In fondo cerchiamo il viso sotto la maschera, l’impiegato dietro il supereroe. Andretta è tutto così, sotto la maschera un’altra maschera. Non c’è nulla, in lui, di più interiore dell’esteriorità; non c’è nulla, in lui, di più essenziale che una profonda superficie.
Se è vero che videmus nunc per speculum in enigmate, tale enigma verrà sciolto una volta compreso che la visione facie ad faciem è quella del proprio doppio: Andretta ci rivela che “la bellezza di Dio”, dunque, è speculare, è fare i conti con un altro sé stesso, guardarsi in faccia. C’è bellezza di Dio, in fondo, soltanto in eguale misura in cui c’è la sfuggente bellezza di Lello Spontini: sotto l’accappatoio niente.

Lello Spontini: tutta (?) la verità

di Stefano Andretta

L’intervallo! Sarà tra poco, l’intervallo, il mio. E la vita di

un uomo non è che il tempo di dire: Uno. Se non è ora

sarà avvenire. Se non è avvenire, sarà ora. Se non è ora

pure verrà. Star pronti è tutto. Ché se nessuno di noi sa

nulla di ciò che lascia, dimmi che importa lasciar prima

del tempo? Lascia andare.

Le origini del ‘mito’

Stavo finendo di lavorare alla mia tesi di laurea, nel gennaio 2017. Arrivavo al traguardo con qualche anno di ritardo, impaziente di conseguire il titolo che mi avrebbe permesso di entrare a far parte della numerosa schiera dei laureati. Per quel che possa valere una laurea di primo livello, per di più in Scienze della comunicazione, pensavo che da lì in avanti avrei avuto il timbro dello Stato, quindi una certa credibilità nel parlare di de Saussure, Jakobson o Chomsky, così come di sociologia della cultura, mass media e linguaggio audiovisivo. Cose che facevo anche prima (soprattutto prima, curiosamente), ma la mia percezione è che non venissi preso sul serio dai numerosi interlocutori. Questi ultimi molto spesso reagivano con stupore quando scoprivano che non ero un docente ma uno studente fuori corso, con l’unica qualifica di un diploma in informatica, fra l’altro conseguito molti anni addietro e con scarso profitto. Qualche scrupolo me lo facevo, — avevo l’impressione che le persone con le quali di volta in volta interagivo si sentissero prese in giro da un saltimbanco dell’ultim’ora.
La tesi era una compilazione di filosofia morale dal titolo Aspetti sociali ed etici dell’«agire comunicativo» in Jürgen Habermas. Non scelsi il tema per via di un interesse particolare, semplicemente non volevo avere un relatore che mi stesse con il fiato sul collo, quindi avevo optato per un bonario docente associato di bioetica che mi dicevano essere «molto sciallo» coi suoi tesisti. Fra l’altro ero riuscito ad accaparrarmelo pochi mesi prima che andasse in pensione. Ogni tanto qualche fortuna.
Quindi studioso in comunicazione ma con tesi di filosofia, forse in proiezione inconscia di una iscrizione ad un corso magistrale in discipline filosofiche, cosa che non poté comunque avvenire per insufficiente numero di crediti nei settori scientifico-disciplinari richiesti per l’ammissione.
Era un periodo di grande fermento, il livello della mia autostima era insolitamente alto e la voglia di irridere le storture del mondo ancora di più. Una sera, appoggiato alla cassettiera della mia camera da letto, afferrai lo smartphone e cominciai a scrollare di rito su Facebook. Già da alcuni anni mi ero ritrovato a frequentare, chissà perché e per come, una cerchia piuttosto ampia di musicisti, afferenti perlopiù all’area dell’alternative rock (scrivo così per semplificare). Mi imbattei per caso in un post pubblicato da uno di questi, a seguire c’era il solito muro di commenti. Morale della favola: tra quelli che avevano commentato quel post, dichiaravano tutti di avere un album in uscita. «Mercoledì uscirà il mio nuovo album», «Sto lavorando al mio nuovo progetto», «Il mio invece sarà un lavoro di sludge metal rivisitato secondo le tendenze emocore ma con contaminazioni elettroniche importanti» ecc.

2015, Casa 5rui

Insomma, nessuno che avesse voglia di lavorare. Da lì a poco venni colto da un fremito primordiale, una specie di carica erotica di quelle distruttive. Pensate a Brian Molko che spacca tutto al Festival di Sanremo del 2001, ma non avendo chitarre né amplificatori a disposizione canalizzai l’energia in un commento tanto semplice quanto icastico: «Il mese prossimo uscirò anch’io con il mio album!». Qualcuno mi prese sul serio, molti mi ignorarono. Da parte mia quell’uscita significava una sorta di presa in giro con sottotesto implicito del tipo: “Tutti artisti, tutti musicisti!”. Ma in realtà stava già nascendo la volontà di affermare la mia presenza in forme diverse da quelle del salotto borghese. Altro che épater les bourgeois, ― volevo incendiare quel mondo con le sue stesse armi, un lanciafiamme ma con il pelo folto da allisciare, che a sua volta avrebbe sì arso l’ambiente ma a fuoco lento e con numerose carezze l’altrui peluria. ‘Stefano Andretta’ è un nome privo di charme, mi serviva qualcosa che suonasse bene, il nord e il sud insieme. Mi ricordai di un vecchio scherzo di Marco Balestri ai danni di un malcapitato Alain Delon, ospite di una fittizia trasmissione televisiva. Tra i complici di quella burla figurava un certo Lello Spontini. Il nome mi rimase impresso per anni, forse perché trovavo che il cognome contraddicesse il nome, con Lello che vive al sud e Spontini che punta al nord. Lo scelsi senza pensarci due volte.

Non mi serviva incidere materiale nuovo. Non so suonare e non so cantare, quindi come fare? Recuperai da un vecchio hard disk delle tracce che avevo composto nei primi anni duemila avvalendomi di rudimentali software che offrivano campionamenti privi di diritto d’autore. L’album era già pronto, bisognava solo scegliere i migliori brani da includere nella scaletta definitiva.
Da lì a poco aprii una pagina su Facebook per pubblicizzare in maniera sibillina il progetto. Le anticipazioni dell’album furono due pezzi scartati che feci circolare su YouTube, Dub Catania e Futti Futti. Quando poi l’album apparve su Bandcamp, qualcuno mi fece notare che i due pezzi che avevo escluso dalla scaletta erano migliori di quelli che avevo scelto per l’album. Quel qualcuno era Emiliano Cinquerrui. Mi fidavo della sua sensibilità, ma l’album era ormai bello che fatto, e decisi di mantenerlo così com’era venuto fuori.

Cover album “Lello Spontini”, febbraio 2017. L’uomo ritratto è il padre di Stefano Andretta. Autore del quadro: Mario Alfino. Datazione: 1973 circa.

Ascolta QUI l’album “Lello Spontini

Ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi. Era arrivata l’estate, nel frattempo, e con essa la voglia di andare al mare. Mentre mi accingevo a varcare l’uscio di casa verso l’esterno, il suono di notifica di Messenger mi chiamò ad una nuova attenzione. Era Leda Gheriglio. Si era imbattuta per caso in Futti Futti e a tutti i costi voleva girare un videoclip. Lì per lì mi parve un’idea balzana, fare uscire il video di una b-side, fra l’altro di un divertissement che per me s’era già concluso. Ma Leda insistette al punto da lasciarmi convincere, e da lì a pochi giorni girammo il famoso video nelle desolate campagne di Tarderia.

Lì nacque il look spontiniano per eccellenza: vestaglia di ciniglia blu e occhiali da sole. Sotto non indossavo niente. Scelta dettata piuttosto dall’altissima temperatura climatica di quella giornata che non da forze dissolute o fintamente trasgressive di qualche sorta.

Per promuovere il video ci facemmo fotografare abbracciati, Lello in vestaglia e Leda con addosso una camicetta da notte bianca. Volevamo sfruttare i pruriti voyeuristici di amicame e compagnia non bella, nel suggerire una specie di liason ora pseudoerotica ora permeata di regressione infantilista. Ci riuscimmo.

Colui al quale confidate il vostro segreto,

diventa il padrone della vostra libertà.

Il ballo del lento tra sconosciuti

Avevo conosciuto Leda l’anno precedente, al matrimonio di un amico comune. Ad essere più precisi avevamo avuto un primo scambio di battute nel backstage dello Zanne Festival del 2015. La riconobbi immersa com’era nel suo sudore, e la fermai per chiederle se fosse lei. In effetti era lei. Ma per un anno non ci incontrammo più, fino al matrimonio di aprile 2016.

In quell’occasione, in maniera del tutto naturale, cominciammo a parlamentare del più e, soprattutto, del meno. Non eravamo seduti allo stesso tavolo e la cosa non ci piacque affatto, nonostante fossimo dei perfetti sconosciuti. Civettammo tra noi di cinema, teatro, arti figurative. Allora sostenevo che il vero teatro poteva darsi solo al di fuori delle strutture istituzionali. Lei, al contrario, sosteneva che il teatro si fa nei grandi teatri e che gli spazi cosiddetti alternativi spesso di alternativo hanno ben poco. Nonostante le divergenze ci piacemmo, non nel senso biblico ma nel senso platonico, se non addirittura socratico. Da lì a poco brindammo «alla nostra neonata amicizia» con dei calici di Carricante. Dopo pranzo prendemmo a ballare un lento sulle note di Bruno Martino. Quella fu la prima e ultima volta che ballai un lento con qualcuno in vita mia.

Luglio 2017, backstage del video “Futti Futti”. Con Leda Gheriglio.

Chi mai, s’io grido, m’udrà delle schiere celesti?

E d’improvviso un angelo contro il suo cuore m’afferri, ―

io svanirei di quel soffio più forte. Ché il bello

è solo l’inizio del tremendo, che noi sopportiamo,

ancora ammirati perché sicuro disdegna

di sgretolarci. Sono gli angeli tutti tremendi.

Primo sconcerto

Fino a ottobre 2017 l’attività concertistica si era limitata a una serie di date fittizie fissate nei posti più improbabili: antichi borghi rurali dismessi da tempo, oscure e inaccessibili periferie dell’entroterra siculo, addirittura la zona industriale di Catania. Qualcuno ci aveva persino creduto. Il caso più eclatante riguarda un concerto che Spontini avrebbe tenuto alla spiaggia nudista di Marianelli, sita nella Riserva Naturale di Vendicari in provincia di Siracusa. La notizia venne ripresa da una testata locale e data praticamente per certa. Molti newsgroup ancora oggi la conservano nei loro database tra gli eventi più inconsueti di quella stagione. Venni persino contattato da un tizio che chiedeva a gran voce un bis di quel concerto al quale non aveva potuto assistere (mai realmente avvenuto!). Arrivò persino a domandarmi se tra il pubblico avessero fatto capolino ragazze nude, oltre a numerosi dettagli anatomici che mi divertii a fornirgli per il suo sollazzo da quattro soldi.

Una mattina come tante ricevetti una inaspettata telefonata di Emiliano. Mi chiese se il mio cliente volesse esibirsi in apertura all’imminente concerto degli Smegma Bovary in programma al Teatro Coppola. Inizialmente rifiutai, adducendo come motivazione l’assenza di una strumentazione adatta e il fatto che in tal caso avrei potuto esibirmi solo con basi preregistrate. La sua risposta non lasciò spazio a ulteriori approfondimenti: «Perché, non facciamo forse così anche noi?». Bastò una battuta a convincermi, basta (quasi) sempre poco per convincermi a fare qualcosa. Per completezza e onestà intellettuale, annoto che l’idea di quell’opening act fu di Manuela, che allora si esibiva con il gruppo nei panni della soubrette, un ruolo per certi versi assimilabile a quello che fu di Annarella Giudici nei CCCP.

Mi presentai in teatro in largo anticipo, ebbi quindi tutto il tempo di programmare la scaletta. Avevo a disposizione solo quindici minuti. Interpretai quel limite come un invito alla moderazione. “Ok, ti facciamo suonare, ci piacciono le novità, ma la gente è qui per sentire noi”. Non so se pensassero proprio questo, ma era ciò che pensavo io, fra l’altro lo ritenevo un ragionamento assolutamente legittimo. Decisi di salire sul palco vestito come nel video: occhiali scuri e vestaglia. Da lì in avanti questo look divenne il tratto distintivo di Spontini. Nella mia testa doveva essere un personaggio assolutamente ridicolo. Non mi interessavano gli applausi, volevo sentire fischi, insulti, improperi, insomma fare incazzare i musicisti “veri” presenti tra il pubblico. Al playback accompagnai movenze che nella mia intenzione dovevano essere risibili, ancheggiamenti, mosse da dj consumato e consunto, tutto artificiale e finto, ― persino l’inserimento del jack delle cuffie non andò a buon fine, così da essere costretto a lanciarle al pubblico pur di produrre un qualche effetto scenico. Nell’ordine, proposi il video di Futti Futti, poi Camilla e infine Che bel sole oggi, il pezzo più danzereccio del lotto.

Parlare di ovazione è certamente esagerato, ma il poco pubblico accorso quella sera applaudì di derelitto gusto e buon cuore, al punto da chiedere il bis. Stavo per rientrare in scena e ripetere l’ultimo brano, ma dietro le quinte il capitano di fregata Luca Giannone mi persuase a non farlo.

Ottobre 2017. Apertura agli Smegma Bovary.

Signorina… Signorina è così che si chiama

il non è.

Lazio in camerino, o della Magna Grecia non sodomita

Dedicai l’esibizione ai Milli Vanilli. Per chi non li conoscesse, si tratta di un duo che piazzò diverse hit in classifica all’inizio degli anni ’90, al punto da ricevere persino un Grammy Award. Sennonché più avanti si venne a sapere che i due non sapevano cantare e che per la voce si servivano di due ghost singer, una pratica fra l’altro abbastanza comune fino a poco tempo prima. Su di loro cadde subito lo stigma dell’indignazione ipocrita a stelle e strisce, al punto che il Grammy gli venne revocato e uno di loro addirittura si suicidò per la vergogna. Spontini è un messaggero dell’artificiale, se ne frega del talento naturale ammaestrato dai canoni, vuole bruciare i soldi che non ha ancora guadagnato, suicidare una vita che non c’è perché irregimentata dal dovere sociale, dal principio di prestazione, irridere un pubblico in fregola, totalmente asservito ai propri piccoli semidei di turno da adorare incondizionatamente.

Ma torniamo a quella sera. Gli Smegma avrebbero terminato a breve il loro set. Probabilmente non erano al massimo della forma, o più probabile ancora che proponessero un canovaccio cui il loro pubblico era abituato, sebbene con qualche variante dovuta all’inserimento in scaletta dei brani del loro album di recente uscita Coppa del nonno. Capita raramente che l’opening act riesca a fare breccia più del main act, eppure l’impressione generale fu quella di un gradimento maggiore dei quindici minuti di Spontini rispetto ai sessanta occupati dagli Smegma.

Avevano appena finito di suonare l’ultimo brano quando decisi che era arrivato il momento di rivestirmi e di tornare a indossare i più comodi panni di Stefano. Mentre ero in camerino, una voce maschile di uno degli occupanti (probabilmente Luca Giannone o Marco Sciotto) mi distrasse dalla distrazione: «Stefano, ci sono due ragazze che chiedono di te!». Mi affacciai aspettandomi di vedere due amiche che magari erano passate a salutarmi. Invece mi ritrovai davanti due straniere. Straniere in duplice senso, persone a me del tutto sconosciute e di nazionalità non italiana, probabilmente studentesse Erasmus capitate lì per caso. Dimostravano un’età di circa 21 o 22 anni, fisico longilineo, abbigliamento da Festival dell’Unità, una bionda e una mora come da tradizione sanremese, presumibilmente tedesche, a giudicare dall’articolazione dei loro fonemi. Non parlavano una sola parola di italiano, quindi provavano a esprimersi maldestramente in un inglese ai crauti, credendo che io le potessi capire. Da quel colloquio riuscii a discernere solo alcuni concetti di alto valore gnoseologico, del tipo «Oh mai gad, iu ar grit», «veri special miusic», «uonderfol boi». La situazione non aveva alcun senso. Chi erano quelle lì? Cosa volevano? Perché tutte quelle moine ingiustificate? Le rockstar non sono di casa qui, io sono qui per disprezzare tutto questo mentre voi state rincarando la dose!

Dopo cinque minuti di convenevoli, mi chiesero se avessi con me dei CD con la musica che avevano ascoltato. Risposi che sì, ne avevo uno soltanto e che lo avrei regalato a loro. Dalla borsa estrassi questo misero CD-R della Verbatim e lo consegnai nelle loro mani, ma non paghe pretesero pure l’autografo. Nel vergare il disco, azzardai il disegno di un cuoricino. Al che le due si sciolsero in uno yodel congiunto che doveva significare una qualche forma di lusinga. La mia soglia di resistenza era arrivata al limite, con un gesto di riverenza provai a congedarmi ma una di loro con un balzo felino mi afferrò per il braccio. Fui sequestrato per altri dieci minuti e fatto oggetto di attenzioni voluttuose da parte di entrambe. Credevo che cose del genere potessero accadere solo nei film, o comunque in contesti più blasonati. Evidentemente il mio sguardo sul mondo era ancora vergine, e questo fu solo il primo di una serie di eventi assurdi che mi sarebbero capitati negli anni a seguire.

Questo incidente fu la ragione principale che mi spinse a far rilasciare a Spontini la seguente dichiarazione in una intervista dell’anno successivo: Il pubblico ti segue finché sei un simbolo fallico. Se sostituisci Nick Cave con un eunuco, mantenendo la stessa tensione spirituale e la stessa angoscia esistenziale, non gliene frega più niente a nessuno. [Verità: per dotta lira o canto virtù non luce in disadorno ammanto]

Ancora scosso da quanto successo, scesi gli scalini che dal camerino dànno alla sala, finalmente in abiti civili e con il desiderio di consumare una Vodka Lemon. Intanto il teatro si era quasi del tutto svuotato; oltre me resistevano una manciata di spettatori sparsi qua e là sul parterre. Mentre mi apprestavo ad uscire, venni riconosciuto da due donne dall’aspetto giovanile: «Tu sei Lello Spontini, vero?». Fui laconico: «Magari!». «Complimenti per il set!». A differenza delle lolite di prima, mi apparvero più simpatiche e niente affatto invadenti. Ne seguì una conversazione spiritosa e cordiale dalla durata di quattro minuti secondi. «Che fate adesso? Al Chakra dovrebbe essere iniziato il Dj Set di Ubu Khan». Le indirizzai su quel binario, ma in verità ero stanco e volevo tornare a casa. Non lo sapevo ancora – non potevo saperlo – ma per un certo periodo una delle due sarebbe stata la mia fidanzata dall’aprile successivo.

Una volta fuori fui accerchiato da un gruppo di ragazzi e in coro mi chiesero di fare una foto. La richiesta fu esaudita.

Ottobre 2017. Foto con i fan dopo il concerto.

Chissà cosa vuol dire debolezza

forza, nella gente, spina dorsale.

Pelio

Nel sottobosco che strenuamente si agita per emergere, in una più che stretta fronda della Sicilia orientale (ma con un pied-à-terre a Roma), si aggirava allora uno strano individuo. Ad essere più onesti, non tanto lui, ma il circo Barnum che gli si muove e muoveva attorno era ed è alquanto sui generis. Lui allampanato, intabarrato in giacche improbabili dai mille colori, aria imbambolata e sfatta di chi ha bevuto troppo e non vuole saperne di smettere. Un falso bohemien ma con il buon gusto del cromatismo spinto.

Conobbi Pelio nell’àmbito di una serata a Opera Commons. Aveva appena finito di suonare i brani tratti dal suo album Yana. Lì per lì non mi colpì molto. In generale la musica non mi piace, e se la ascolto, specie dal vivo, è perché amo farmi del male. Parlerei più propriamente di “musica dal morto”, altro che dal vivo! Al di fuori della nobile tradizione sinfonica, tollero solo il playback e l’artifizio totale. Non mi piacciono i musicisti rock in senso lato. Solo di recente ho ascoltato una canzone straordinaria che esprime in tutto e per tutto il mio pensiero su di loro. Si intitola I musicisti ed è cantata da Marivana Viscuso, una meteora degli anni Ottanta che solo di recente è riuscita costruirsi una piccola carriera in America.

C’è da dire che Pelio si distingue dal mucchio selvaggio per un’autarchia pressoché totale nei suoi lavori. A differenza di molti altri, non cerca alcun consenso che non sia il mero appagamento romantico verso sé stesso e gli artisti a cui tributa una devozione particolare. È per di più come il buon vino, ― migliora di anno in anno.

Lo sorpresi in salotto mentre era impegnato in una dotta conversazione su Giovanni Papini insieme a Salvatore Massimo Fazio, un giornalista-filosofo abbastanza noto nell’ambiente. Di Papini avevo letto, fra gli altri, Un uomo finito; mi mancava tutto il periodo artistico successivo alla sua conversione al cattolicesimo. Di fatto non potei contribuire più di tanto al piccolo simposio e da quell’incontro andai via mestamente.

In un altro momento della serata mi fermò chiedendomi di Spontini. Fui molto vago, gli dissi che con lui non c’entravo nulla e che se avesse voluto saperne di più avrebbe potuto informarsi sulla pagina ufficiale di Facebook. Mi prese alla lettera e dal suo smartphone visitò subito la pagina. Per prima cosa mi prese in giro per il basso seguito che aveva («solo settantadue mi piace, non ti calcola nessuno!»), in seconda battuta mi diede una serie di consigli non richiesti che però apprezzai moltissimo. Ebbi comunque per tutta la serata l’impressione che mi guardasse in cagnesco. Insomma, la simpatia non fu immediata e francamente non potevo pensare che da lì a qualche anno sarebbe salito sul carrozzone spontiniano in veste addirittura di semiproduttore.

Non nascondo che tra tutti gli artisti che ho conosciuto a Catania negli ultimi dieci anni, Pelio è quello meglio vestito, oltre che il più tollerabile come persona.

Ottobre 2017, Lello e Pelio durante una serata a Opera Commons.

Il primo periodo dell’innamoramento è sempre il più bello,

poiché ad ogni incontro ogni sguardo si porta a casa

qualcosa di nuovo per rallegrarsi.

Vi(v)a San Calogero o della topografia assiologica

All’inizio del 2018 feci uscire due EP su YouTube, Nessuno ama un albatro e My Adventure Machine. Episodi minori, trascurabili. Il gesto balistico più interessante di quel periodo fu senza dubbio il remix di Nella luce che confezionai per gli Smegma Bovary. Bastò invertire la traccia, aggiungere un beat fuori tempo e alcuni scratch a corredo o sfregio: un capolavoro.

Fino a dicembre il progetto fu messo sotto formaldeide. Emiliano colse la delusione nei miei occhi e offrì a me e Pelio di finanziare, da buon mecenate qual è, un album da incidersi con mezzi professionali. Lasciammo cadere lì la generosa proposta. Non ho mai chiesto a Pelio cosa ne pensasse, ma ho una teoria: entrambi cerchiamo la dannazione perpetua, l’eterna incomprensione, il dibattito in una solitudine senza riparo. Avremmo voluto rispondere ‘grazie’, ma sospirammo tra di noi soltanto un ‘prego’. Così, in via ipotetica, mi piace pensarla. Quando non capisco le risposte che la vita mi offre, mi piace rielaborare le domande, costruire uno scenario alternativo che non sto considerando, fabbricare motivazioni intimamente personali ma non personalistiche. Credo che i ricordi del futuro siano più affidabili di quelli del passato, perché abbiamo sempre una motivazione recondita per continuare a cambiare il passato.

Marzo 2019. Jam session solista all’Ixtlan.

Intanto era arrivato dicembre e con esso la voglia di dismettere completamente ogni sprogettualizzazione a venire sui nastri di demenza. Una storia sentimentale volgeva al termine e l’ispirazione stagnava ai minimi storici. Da qualche mese avevo cominciato a soffrire di attacchi di panico, faticavo a integrarmi nelle comitive e neppure riuscivo a disintegrarmi panglossianamente in me stesso. Spesse volte riuscivo a farla franca dissimulando il disagio con astute mosse da prestidigitatore sociale, qualcosa a metà tra il Vittorio Gassman mattatore di inizio carriera e il Woody Allen che si confessa. Già da diversi anni, quando non capivo una situazione, muovevo lentamente la testa a sinistra e a destra come farebbe un personaggio dei cartoni animati e usavo chiedere dove fossero nascoste le telecamere. Mi piaceva esibirmi solo per il piacere di quelle telecamere inesistenti, per la téchne, non certo per chi vi guardasse attraverso. Non mi rassegnavo, nonostante una conclamata, forse solo dichiarata e mai del tutto accettata, disillusione precoce. Ho sempre sentito sulle spalle il peso di un’età almeno doppia rispetto a quella anagrafica. Per molto tempo, più o meno a partire dai primi anni dell’adolescenza, ho sempre disprezzato gli altri perché disprezzavo me stesso. Una estrinsecazione oserei dire addirittura normale quando lo smarrimento del presente travolge le tue certezze e il tuo sistema di valori è minacciato da ingerenze esterne. Il grande equivoco è di fermarsi a contemplare un abito che non farebbe mai il monaco, quando invece non solo fa il monaco, ma pure “se lo fa”, letteralmente, in senso peccaminoso. Ma ferita era la benda, non il braccio. Ciò nonostante, Spontini e Stefano cominciavano a convergere pericolosamente verso un unico punto di incontro e scontro, e lì mi sarei dovuto fermare. Si rischiava la simbiosi da operetta, con l’aggravante di un ripiegamento narcisistico che non mi avrebbe lasciato scampo se l’album successivo avesse ottenuto qualche favore.

A fine anno fu la volta di «Rete», un evento multidisciplinare che ebbe luogo a Opera Commons. Quella sera si esibirono poeti, attori, scrittori, operatori culturali, musicisti di estrazione diversissima, dal cantautorato folk ai giovani improvvisatori che presentavano i loro sketch squinternati a un pubblico di amici consenzienti. Spontini e Pelio (separati) vennero piazzati per ultimi in scaletta, cosicché salii sul palco che erano già le due di notte inoltrate! Faceva un freddo boia. Con troppo anticipo mi ero infilato nella mise estetica di rito, appena confortato stavolta da un pigiama sciupato e da una sciarpa di tulle. Durante la “mia” esibizione successe un parapiglia infernale: un cinquantenne amico di amici, tale ********, si ubriacò di brutto. Totalmente in preda al delirio alcolemico distrusse un tavolino di legno ai piedi del palco, planandoci sopra con tutta la sua carcassa umanoide. Mi stupii del fatto che non si dimostrò per nulla dispiaciuto per la cazzata commessa, anzi sembrava divertito dalla sua marachella dadaista. Oltretutto mi apparve inappropriato un comportamento del genere per un uomo di quella età. Si trattava pure della stessa persona che pochi giorni prima mi aveva accusato di “hate speech” (sic.) per alcune mie osservazioni assolutamente neutre su rapporti umani e mondo del lavoro. La solita ipocrisia degli “arrivati”, che puntano il dito verso opinioni che minacciano la loro sfera individuale e deontologica salvo condurre una esistenza vana e dissennata al punto da potersi permettere di arrecare danno a beni altrui senza neanche usare la cortesia di menarglielo davanti per sdebitarsi. O più semplicemente di chiedere scusa.

Al capitombolo del babbione si aggiunse l’euforia parossistica dei pochi che avevano avuto l’ardire di resistere fino a quell’ora; i più erano visibilmente alticci e a caccia di emozioni forti. Da sotto ululavano di tutto. Emiliano era addirittura fuori dal fuori-di-sé e invocava ad alta voce un certo Sciuto. Luca Giannone si produceva in battute sagaci ricche di riferimenti alla cultura pop, che credeva di rinvenire tra le pieghe di ogni brano che mandavo in play. Tra il pubblico c’erano pure dei miei parenti che erano venuti a vedermi, persone integerrime ed estranee all’ambiente, quindi del tutto ignare di ciò che li aspettava. In un angolino assistettero allo spettacolo tradendo un tangibile imbarazzo che riuscii a percepire anche a distanza di metri. Più avanti mi avrebbero chiesto, con un commovente piglio naif: «Ma quelle persone ti amavano sul serio o ti prendevano in giro?». Teneri! Ma quella sera non percepii proprio tutto. Qualche giorno dopo il concerto venni chiamato a rapporto dall’organizzatrice. Mi chiese informazioni a proposito di una spettatrice scatenatissima che aveva suscitato la sua curiosità ma di cui lei non sapeva nulla. Provò a descrivermela, disse che durante il “mio” set aveva ballato senza fermarsi un attimo, alta, slanciata e dall’aspetto androgino. «Mi dispiace, non so chi sia, non l’ho vista. L’unica donna alta, slanciata e dall’aspetto androgino che conosco sono io!».

Cover album “Viva San Calogero!”, febbraio 2019.

Ascolta QUI l’album “Viva San Calogero!

Viva San Calogero! uscì nel febbraio 2019. Per la prima volta mi affidavo alle mani di terzi. Onore e sorte toccarono a Golden Catrame. Non volevo pubblicare per un’etichetta ufficiale. Un collettivo di scanzonati cabotin bastava e avanzava, e grazie all’intercessione di Pelio l’album entrò nel loro catalogo. “Viva San Calogero!” è il gioco a carte di un perverso vissuto della catalessi. Un’opera che sfoderava – ahimè – qualche ambizione di troppo, nonché un certo affondo nella mia vita privata. ‘Privata’ qui da intendersi come participio passato, ovvero privata di tutto. Citazione beniana a parte, in più punti Stefano Andretta prende il sopravvento sul suo doppelgänger. Heidi intro è una registrazione vocale risalente agli anni della mia infanzia; nel finale di Pippo Sogni d’oro si sente la voce rauca di un mio lontano parente; Sanzionismo! è di fatto una sanzione a me stesso affidata al timbro solenne, marziale e vibrante di romano orgoglio di un cantante fascista («Sono fuggito a mamma | perché la dolce fiamma | che mi riscalda il cuore d’amore | sei tu»). Ornella è tutt’altro che un omaggio a D’Annunzio, come dichiarato nel sottotitolo-esca. Viva San Calogero! ha poco a che vedere col santo, piuttosto è un titolo topografico e assiologico. I brani in cui Spontini può riaffermare la sua supremazia, senza il pesante ingombro del suo manager-artifex, sono l’onirico e lynchano Ritorno a Twin Peaks e il più cagionevole e sghembo Sogni d’oro. Quest’ultimo è uno dei pochi brani del repertorio che io abbia interamente composto nota per nota in tutte le sue parti. Un buontempone più avanti mi dirà: «Se tanta sofferenza è riuscita a partorire un disco così bello, continua a soffrire per sempre».

L’album risultò essere il più ascoltato del catalogo Golden Catrame. Avevo di nuovo sbagliato tutto, solo che stavolta lo avevo fatto meglio.

A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza,

a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.

L’uomo nel labirinto

Il relativo successo di Viva San Calogero! tra gli amici e gli amici dei tal dei tali non mi scompose minimamente. Ogni tanto qualcuno mi si avvicinava chiedendomi che programmi avessi usato per comporre la musica, che tecnica impiegassi per effettuare il mixing, bilanciare le frequenze e limare i brani nei suoni più aspri. Rispondevo – quando rispondevo – «È la Bellezza di Dio». Nonostante i consensi nei vari consessi, mi sentivo perso in un labirinto impazzito. Cresceva sempre di più la voglia di sterminare quel ragazzetto lascivo e saccente che aveva preso il mio posto, nato nel 1993 e diplomato al conservatorio con il minimo dei voti. D’altra parte, mi sarebbe dispiaciuto deludere i pochi ma affezionatissimi fan accorsi al mio capezzale e dire loro che tutto finiva nel momento più bello e più florido (più per loro che per me). Non nascondo che avrei potuto continuare a servirmi di Spontini per un altro po’ a mo’ di ariete nei più disparati contesti di aggregazione, ancora non soppressi da stati emergenziali plutocratici. Tuttavia, mi sembrava comunque di peccare di presunzione inversa, come se la mia personalità originale non fosse sufficiente per ottenere non dico la stima e la fiducia ma persino l’ascolto altrui. Parlando più avanti con un’amica di lunga data a proposito di questa mia insicurezza, venne fuori che la percezione che si ha di sé stessi è talvolta antitetica al dato di realtà. Voi direte: e c’era bisogno dell’amica perché si potesse giungere ad una conclusione tanto ovvia? Sì.

Nei primi giorni di maggio 2019 venni convocato dalla Golden Catrame per un concertone che si sarebbe tenuto qualche settimana più tardi al Campo San Teodoro di Librino, quartiere alla periferia sud di Catania. Il cartellone prevedeva i concerti di Muluni, Cantalupo e altri musicisti del collettivo. L’evento aveva scopi benefici di sostegno sociale: una raccolta fondi per famiglie in difficoltà. Pur con qualche titubanza, accettai di portare Spontini all’evento, più per fotografare i paesaggi della suburra al tramonto che per reale vocazione alla causa. Anche in quel caso non avrei percepito alcun cachet.

Per esibirmi mi serviva un sintetizzatore, che in ogni caso non avrei mai collegato, ma mi serviva comunque. Pelio in quel periodo soggiornava a Roma, quindi senza ritegno mi intrufolai a casa della sorella per depredargliene uno tra i più dozzinali del comparto. Del resto, non avevano motivo alcuno per negarmelo. Rimasi stupito quando scoprii che la sorella di Pelio aveva un figlio in età da università. Non c’entra niente con questo racconto, solo che immaginarmelo zio, addirittura di un individuo maggiorenne, potenziale commercialista, proprio non m’era ancora riuscito.

La data del concerto giunse con qualche proclama di troppo. Il nome di Spontini, intanto, era apparso da alcuni giorni in una locandina dal sapore neopaganodisegnata da Irenea Privitera, un’artista molto brava che opera tra Catania e Bruxelles. Il battage pubblicitario fu più sostenuto del solito, forse perché all’evento partecipavano numerose associazioni. Ritirato il sintetizzatore per il rotto della cuffia, salii in macchina in direzione del sito archeologico. Arrivai sul posto nel primo pomeriggio, anche stavolta con un anticipo ingiustificato, se non per effettuare un soundcheck quantomeno decente. Non conoscevo il tipo che si sarebbe occupato del suono, lui non conosceva né me né Lello, e non credo ci tenesse. Ma era un matrimonio che s’avea da fare, «quindi famolo». In mezzo a un manipolo di punkabbestia prelevai il chitarrista Salvo Asero, ― volevo che mi desse una mano ad allestire il set. Non solo si prestò all’istante con l’abnegazione del temerario, ma si offrì pure di suonare da turnista. Lo ringraziai per la disponibilità e da lì a pochi minuti fummo chiamati per il soundcheck. Sorsero subito problemi a monte: il tecnico del suono non si raccapezzava, chiedeva perché avessi portato delle basi così «sbilanciate», troppo basse o troppo sparate; la mancata omogeneizzazione di volumi, toni e frequenze tra un brano e l’altro lo avrebbe costretto a intervenire spesso nel mixer, e in tutta probabilità riteneva fosse uno sforzo insormontabile per la sua soglia di attenzione. Come se non bastasse, nella mezz’ora di prove non riuscii mai a memorizzare il suo nome, e ciò non fece che alimentare la sua antipatia nei miei riguardi. Alla fine, trovammo una soluzione che mise d’accordo tutti, ovvero che in realtà non gliene fregava niente a nessuno dell’esito. Chiarito l’equivoco, ci tumulammo con una risata entro il loculo della sciatteria.

Maggio 2019, concerto a Campo San Teodoro.

Al tramonto vidi giungere un amico di Regalbuto armato di reflex. Lo salutai e gli domandai cosa fosse venuto a fare. «Sono qui solo per fotografare te». E per insidiare pulzelle, aggiunsi. Di poi passeggiamo tra il pubblico che nel frattempo era accorso in massa, quando all’improvviso sentii una voce chiamare decisa «Lello Spompini!». Mi voltai. E ancora: «Lello Spintoni!». Perseveravo a non realizzare, cominciava a far buio e non scorgevo i tratti nell’immediatezza, se non quelli vocali da bimba impertinente. Il timbro si faceva sempre più stentoreo e divertito: «Lello Spontoni!». Aguzzando la vista, ché in quel momento non indossavo gli occhiali, mi trovai davanti una giovine alta, slanciata e dalla carnagione olivastra. Era appena arrivata in compagnia della sua gang di manigoldi. Non sapevo chi fosse, anzi sì, ― in pochi secondi la collegai al suo avatar di Facebook: da qualche mese deliravamo di musica e altre facezie sulle bacheche di amici in comune. Non molto tempo dopo venni a sapere che era una polistrumentista attiva anche nella composizione al computer.

Anche in quell’occasione Spontini fu piazzato per ultimo in scaletta, sicché il pubblico si era ormai quasi del tutto dato alla macchia. Durante l’esecuzione di un brano sforzai in maniera troppo violenta le corde vocali. Nei mesi successivi dovetti sopportare molti fastidi alla gola per via di quell’eccesso giustificato solo dal desiderio di urlare. Nonostante ciò, riuscii a confezionare da lì a poco una prova vocale convincente con la cover di Vanessa moda gaia di Pappalardo, forse perché è un brano che sento molto dentro di me, molto più della canzone di Ranieri.

Cover album “Amazing Maze”, gennaio 2020.

Ascolta QUI l’album “Amazing Maze

Amazing Maze venne rilasciato a Capodanno 2020. Era un lavoro poco personale, ma anche poco spontiniano, un omaggio a Bruno Maderna. Realizzato con un algoritmo messo a punto da un ingegnere tedesco, tale Karlheinz Essl, è un saggio sull’open source aperto alle possibilità espressive aleatorie dei maniaci dell’etere. Ma soprattutto è un lavoro che lascia spiazzati praticamente tutti quelli che avevano apprezzato i primi due album. Non era più tempo di canzoni, di spleen, melancolie, risate e baldanze. Con Amazing Maze ho voluto fare a pezzi il linguaggio, il servilismo della coscienza, i grandi temi sociali ma financo, per inverso, il disimpegno da falansterio amicale, la collegialità (l’intermezzo Casa 5rui è esemplificativo di tale direzione). Nell’operare questo stravolgimento sintattico, non mi prendo nemmeno la briga di posizionare dei campioni in un sequencer (figuriamoci impegnarsi nella composizione pura!), al contrario sfrutto l’ingegno di una elaborazione concettuale preesistente figlia della liquidità proto-accelerazionista del postmodernismo più deteriore (l’algoritmo di Essl, brevettato nel 1993, anno di nascita di Spontini) inframmezzato da brevi sketch ad opera di una collaboratrice esterna. È in questi ultimi che il linguaggio salta, si scompone, si divincola per fuggire da sé stesso (i messaggi vocali di Andretta/Spontini vengono privati dell’originaria matrice di senso per andare «fuori catalogo», per tornare infine «a casa di Cinquerrui»). Uno shock indigeribile, l’album ottenne pochissimi ascolti al punto da costringere Golden Catrame ad anticipare repentinamente le altre uscite in programma nel tentativo disperato di mettere una pezza sul flop. Fuori catalogo o fuori di sé?

Gennaio 2020, concerto al Baraccio.

Passa un giorno monotono, e un altro invariabilmente monotono lo segue.

Accadranno le stesse cose, accadranno di nuovo ― gli stessi istanti ci trovano e ci lasciano.

Un mese passa e porta un altro mese.

È facile immaginare ciò che arriva: sono le stesse cose, la stessa noia di ieri.

E il domani finisce col non sembrare più domani.

Musica delle sfere

Un colpo di coda verso l’interno prima di andare a dormire. Questo è La Bellezza di Dio. Il “corpo” non c’è più. Resiste una mano che sfiora un cappotto, confinato nel titolo di una traccia di tre minuti e quattro secondi. Ma è solo un ricordo. Si conserva in modo sempre più cosciente una zavorra che a più riprese ci mette dinanzi alle insidie sconosciute, all’arrivo del “nuovo” che (dis)integra il “già dato”, nascite, perizie e reviviscenze, la condanna al deperimento fisico e psichico. Può resistere solo l’interiorità, l’unico argine al tempo. Di quel che siamo stati ricordiamo molto ma in maniera sfalsata, ci arroghiamo la boria di non rinnegare niente di tutto ciò che abbiamo smarrito, non foss’altro che ad ogni frattura ne provochiamo un’altra nello stesso punto di crisi. L’anima si dipana tra notifiche di sconforto e notifiche celestiali, con un cappotto a fare da tramite ideale. La si veste, l’anima, di panni innecessari, pur di conferirle una materialità che possa affermare il primato della fisiopatologia dei luoghi comuni sull’ascesi cristiana. La malattia è maldoror, mal d’aurora, l’ossimorica verità di ogni essere duale. Salute e malattia non sono cose sostanzialmente diverse. Amare è soffrire. Addentrandomi con umiltà e verecondia in questa dimensione arcana, il suono può dunque divenire territorio di contemplazione pitagorica, un’armonia stellare che, senza scomodare le più recenti concezioni antroposofiche di Steiner, può permettersi di attingere la spiritualità dal un aldilà tutto terreno (a patto che questa sia l’anticamera a una Grazia divina). Per comporre i brani mi sono lasciato comporre. Dicesi ricorsività. “Il mistero della parola di Dio, il Dio della Bibbia e della Torah di cui non si pronuncia il nome, il Dio incarnato dei Vangeli, il Signore che vive nel mistero della Chiesa, colloca ogni singola esperienza umana in un orizzonte in cui le vicissitudini, gli accadimenti, pur bastando a sé non ne esauriscono il senso.”

Cover album “La Bellezza di Dio”, maggio 2020.

Ascolta QUI l’album “La Bellezza di Dio

L’EP risollevò in parte le quotazioni del progetto Spontini. Ma si era fatto tardi, era tempo di agire e sragionare, rimandare baci e teorie. Sopprimerli, se possibile. Una esibizione in live streaming di marzo 2020 fece da preludio a un periodo di pessima salute che mi costrinse a interrompere del tutto le attività lavorative, di studio e di convivialità sociale. Il calvario cominciò in una di quelle giornate di primavera. Una parestesia del braccio sinistro, dolori persistenti al destro. Fascicolazioni muscolari agli arti inferiori, accompagnate da una difficoltà sempre crescente a mantenere il collo in posizione eretta. La testa cedette, sbandamenti e capogiri fecero favella alimentando una insopportabile sensazione di instabilità generale. L’intensità dei disturbi raggiungeva il suo climax di fronte a schermi luminosi. Di fatto dovetti sospendere a tempo indeterminato l’utilizzo del computer e dello smartphone. Ad ogni tentativo speranzoso di rimettermi in carreggiata seguivano sincopi preoccupanti, battistrada per uno stato di astenia che mi costringeva a letto gran parte della giornata. Questa condizione si protrasse per tutta la fase del primo lockdown nazionale, rendendo il tutto ancora più frustrante. Per tre mesi persi ogni contatto con il mondo.

Con grande difficoltà riuscii a fissare un appuntamento con un neuropsichiatra intorno a metà aprile, il quale mi accolse mascherato da uno scafandro da palombaro in ambiente completamente sterile. L’illustre professore riscontrò una debolezza muscolare generalizzata e temette il peggio. La prognosi fu infausta: probabile malattia demielinizzante. Mio padre andò completamente nel pallone. Dovevo sottopormi d’urgenza a diversi esami: risonanza magnetica encefalica e midollo spinale con mezzo di contrasto, potenziali evocati visivi, motori e somatosensoriali da eseguirsi con la massima tempestività. Per fortuna l’analisi strumentale escluse patologie neurodegenerative e da lì in avanti presi a poco a poco a stare meglio.

A giugno toccò alla scomparsa di Alessandro. L’unica persona su questo pianeta che avesse capito qualcosa di me. Non aveva ancora 47 anni. Melanoma da mutazione genetica e conseguenti metastasi cerebrali. Non volle nessuno accanto a sé nelle ultime settimane di vita, a parte la moglie e i due figli. Gli avevo dedicato un post nell’album fotografico di famiglia. Non un commiato né piagnisteo. Detesto la pornografia del dolore, specie se esibita a scopi ricattatori per raccattare facili consolazioni. Questo sentimentalismo all’acqua profumata che neutralizza i sentimenti veri, quelli che non si possono comunicare. Il sentimento si può comunicare? Un equivoco nel quale perigliosamente trova terreno fertile la hybris del clown innamorato, che nel tentativo di conquistare la sua bella tenta Shakespeare o il trapezio con il solo risultato di rompersi le gambe. Facciamo ricorso all’«autenticità» delle cose perché la verità fa paura, costringe in una de-finizione che non ammette alternative di ripiego. Niente lettere d’addio. Semmai una rievocazione simpatica e simpatetica di un episodio del nostro passato. Proprio in quei giorni il quadro clinico di Alessandro subiva un peggioramento irreversibile, al punto che la lucidità mentale, complici le numerose iniezioni di morfina, se ne andava spesso a ramengo. Per diverso tempo mi domandai se fosse riuscito a leggere quel post. Soltanto un mese dopo la dipartita, sul finire della cerimonia in suo suffragio, seppi dalla moglie che quelle mie parole lo avevano commosso e divertito allo stesso tempo. «Stefano ha fatto una cosa bellissima, è il solito pazzo di sempre!», aveva esternato in uno dei pochi momenti di lucidità. A me andrebbe anche bene ipotizzare che non fosse lucido neppure in quel momento. Ecco, potrei aver vissuto trent’anni o più ed esserne valse persino tutte le pene soltanto per aver potuto ricevere un’attestazione di affetto tanto sconfinata. Quando perdiamo una persona dovremmo spostare l’attenzione dal dolore di averla persa alla fortuna di averla avuta. È difficile, ― a qualcuno suonerà come una scorciatoia retorica. A me sembra il modo più funzionale e sano per andare avanti, in tutte le sfere relazionali dell’esistenza, financo con l’immateriale e con l’inorganico che ci precede.

Passai l’estate e l’autunno successivi piuttosto bene.

Il nostro merito e la perfezione del nostro operare non dipendono dal

fatto che un altro se ne giovi o no […] non soltanto il nostro merito

e il nostro premio non dipendono dal fatto che gli altri si convertano

o che se ne ritragga gran frutto, ma anzi in certo modo possiamo dire che

facciamo di più e ci acquistiamo più merito quando non succede nulla di tutto questo,

che non quando se ne vede il frutto a prima vista.

Ginola (con l’accento sulla ‘a’)

Il giogo cominciava a farsi stretto. Per strada ormai mi chiamavano quasi tutti Lello. Quei pochi irreprensibili nostalgici che non si erano fatti sedurre tout court da occhiali e vestaglia finivano comunque per chiedermi anticipazioni «sul prossimo progetto di Spontini». Se da un lato registrare interesse per qualcosa che avevo creato e su cui avevo investito del tempo mi faceva piacere, dall’altro avvertivo sempre più il peso di un limite. All’apparenza potevo pure non avere alcunché di cui lamentarmi. D’altronde ero in buona – si fa per dire – compagnia, tra artisti. Tutti devoti al proprio avatar, ognuno di questi non può per forza di cose non suscitare una qualche curiosità presso l’uditorio di pertinenza. Catania pullula di gigioni che si agitano sui prosceni, scimmiette prive di qualsivoglia carisma che devono il proprio piccolo safari al clientelismo amicale. Li si applaude per compassione verso sé stessi, laddove quell’alterità solo apparente si fa testimone in volontà e rappresentazione dell’affollata solitudine di ognuno. Spesso sono fuorviati dal desiderio di scopare. Pur di giacere inermi su letti sardanapaleschi a fine serata, la maggior parte dello stardom iperlocale baratta la propria dignità con il garzone di Belial, accattonando unzioni da basso ventre al peggior piazzista. In dieci anni di mondanità autoinflitta ho dovuto sorbettarmi, tra un’anestesia e l’altra, resoconti trionfalistici di copule vaginali e intestinali imbastite da questi facchini delle sette note ― non importa quanto aderenti alla realtà di fatto. «Vedi, mi sono trombato la metà di tutte le femmine presenti stasera a questo concerto, ciò nonostante, non mi basta mai!», «Io credo di essermene fatte dieci tra queste solo dall’inizio dell’anno», «Io undici!», «Ma sei scarso, almeno un centinaio dal 2010 ad oggi», «A quell’altra ho fatto credere di essere innamorato per continuare a bombarmela!». Conta solo il dato quantitativo. Della qualità della copula non importa niente a nessuno. Te li ritrovi a quarant’anni con il conto in rosso e la prostata in fiamme, pronti a subaffittare il proprio nozionismo strumentale, ormai consunto da triti canovacci esi(sten)ziali, alla fascinazione di piccole Salomè in fregola smaniose di una figura paterna che le liberi dal rock patinato di casa o dalla famiglia nucleare. L’ultima recita disperata prima della disfatta. In qualche sparuta occasione mi è capitato di essere sul punto di porgere perigliosamente la guancia a questo teatrino ortopedico, salvo rendere conto appena in tempo a lucidità e sacramenti quanto fosse sconveniente per tutte le parti in causa invitare a giocare al mio coma.

Infatti non mi lamentavo proprio, nemmeno per scherzo. Forse, se avessi scherzato su quanto fosse ingombrante barcamenarsi tra due personalità tanto diverse che abitavano lo stesso corpo, sarei riuscito nell’impresa di adottare un certo distacco non solo da Lello ma anche da Stefano. Invece anch’io mi ero innamorato di lui. Anch’io cominciavo a piacermi in maniera alquanto sospetta.

Provvidenziale fu l’incontro con il critico e regista Antonio Maria Abate. Conobbi lui e la giovane consorte su un terrazzo panoramico da “grande bellezza” in pieno centro storico, nell’estate 2020. Breve e schematico profilo di costui: bibliofilo e cinefilo accanito, cattolico integralista di rito ambrosiano, residente a Milano per lavoro e ancora per poche settimane a Catania, si presentò come fan di Spontini intenzionato a «saperne di più sul soggetto». Sulle prime faticai a capire. Era proprio un soggetto quello a cui stava lavorando. Mi disse che non sarebbe valsa la pena finirlo, il tempo e i mezzi per portare a compimento il suo film come lo aveva concepito non c’erano più. Tuttavia continuava a coltivare la speranza che un progetto collaterale si realizzasse da lì alla fine del temporaneo soggiorno presso la sua città natale. Era stato stanziato un piccolo budget per girare, peccato mancasse il film. Desolato di non poterlo aiutare, gli feci i miei migliori auguri e mi congedai dicendo che qualora fosse riuscito nell’impresa di organizzare il set e di scritturare il cast, mi sarei offerto per un piccolo ruolo. Per scrupolo e cortesia gli mollai il mio numero di telefono, convinto di non rivederlo mai più.

Pochi giorni dopo ricevetti la sua telefonata. Voleva incontrarmi. Concordammo un appuntamento in un wine bar quella stessa sera. Fluviale nell’eloquio e ricco di spunti dialettici, la prese molto da lontano. Solo alla fine mi resi conto che per più di due ore mi aveva provinato senza che lo sapessi. Addirittura per il ruolo principale! «Non voglio attori professionisti, hai il physique du rôle, la cadenza della tua voce è perfetta per il personaggio!».

Fotogramma da “Ginola” di Antonio M. Abate (inedito, uscita prevista nel 2021).

Era la storia di Aldo (detto “Ginola”), giovane seminarista in abito talare alle prese con la diffidenza e la reticenza di amici e parenti incattiviti in un mondo secolarizzato, ma con risvolti “metafisici” sul finale. Nelle intenzioni del regista-sceneggiatore il protagonista avrebbe dovuto rappresentare la condizione del santo nella società postmoderna. «Tu, Stefano, sei un prete laico. Certo non un santo. Ma dove lo trovi un altro prete laico in giro?». Non faceva una piega.

Le riprese iniziarono da lì a poco e si protrassero per un mese, mettendo a dura prova il mio sistema nervoso. Si iniziava a girare nel primo pomeriggio, si finiva alle quattro del mattino. C’era sempre un impedimento di troppo. Tempi snervanti, soprattutto per l’assenza di una sceneggiatura a monte. Antonio scriveva le scene giorno per giorno, cosicché talvolta arrivavo sul set senza alcuna idea di quello che avrei fatto e delle battute che avrei detto. Con molta fatica alla fine portai a casa il risultato con la protervia dell’esordiente impunito, ma anche quella volta affidai le sorti del transfert al nom de plume di Spontini. Fu grazie ad Antonio e a sua moglie che cominciai a disamorarmi, dapprima lentamente e via via in maniera più decisa, dei miei difetti. Non ero ancora in grado di ammaestrare il dolore né di poterlo affrontare senza una sovrastruttura a sostegno. Aldo/Ginola era tutto quel che mancava a Stefano/Lello. Non mi rimaneva altro che unire i puntini. Portare il bagaglio di quell’esperienza nella fossa dei leoni per rendere più pregnante il martirio. Brechtianamente, avevo recitato accanto al personaggio, evitando accuratamente di annullarmi in una proiezione fantasmatica. Avevo fatto bene. Ora restava solo una cosa da fare, la più importante.

Proprio nello sforzo enorme e coraggioso di vincere la fatica

riusciamo a provare, almeno per un istante, la sensazione autentica di vivere.

Raggiungiamo la consapevolezza che la qualità del vivere non si trova

in valori misurabili in voti, numeri e gradi,

ma è insita nell’azione stessa, vi scorre dentro.

La fine di ogni cosa

Alla fine di quest’avventura mi rendo conto di come il tempo sia passato senza quasi accorgermene. ― No, non è vero niente. Volevo solo iniziare quest’ultimo paragrafetto con un’affermazione retorica già sentita migliaia di volte. Di fatto, potrebbe essere stato tutto il contrario. Persino che questi quattro anni in compagnia di Lello abbiano condensato i miei prossimi quarant’anni di vita, dandomi modo di sentirli in anticipo tutti e quaranta. Senza farmi troppe domande ho tracciato uno schema nel quale ogni elemento ha avuto il posto che meritava, una proiezione del futuro che si avvale di sensazioni inevitabilmente figlie del presente. Ho avuto bisogno di ripercorrere sentieri dolorosi, fare autodafé sulla pubblica piazza del territorio in cui mi muovo, senza mai essere troppo esplicito se non nella manifestazione d’una parodia dai tratti agiografici. Certo è che se lo avessi fatto con il semplice obiettivo di mettermi in mostra pur di accaparrarmi qualche simpatia effimera, posizionandomi strategicamente entro un alveo battuto da tanti, troppi intrattenitori di farfalle, avrei sprecato un’occasione per evolvere come essere umano. Diverse volte ho pure pensato che mi prendessi cura di lui per non occuparmi di me, riservarmi del tempo per riflettere, scommettere e deflettere su un vuoto personale, procrastinando ciò che davvero è importante. Che cosa lo è? Mi torna in mente l’æterno modo di spinoziana memoria, cui ho inteso consacrare tutte le nolontà che orientano l’agire, là dove è possibile resistere alla tentata azione dell’enorme corpus di leggerezze, euristiche e semplificazioni malevole che il quotidiano offre su una scodella di stercorari. Cercare di non rassegnarsi alla consapevolezza di una mente simbolica che poggia sul principio di rappresentazione, semmai sfidarla opponendo ad essa un principio più importante, più alto e più bello: quello di intransitività. Essere sempre ab æterno modo, al di là di un solo momento d’occasione. Possiamo farlo, il buio, ― a patto di non rifiutarci di scorgervi anche lì la bellezza.

Quand’ero piccolo facevo un sogno ricorrente: camminavo nel cortile della casa in campagna della sorella di mia nonna, dove ogni anno insieme ad altri parenti ci riunivamo per la pasquetta. A un certo punto mi allontanavo dal gruppo e mi inoltravo dietro un piccolo angolo esterno dell’edificio, dove nella realtà venivano riposti gli attrezzi per lavorare la terra. Nella trasfigurazione onirica l’angolo non ospitava badili ma ingranaggi enormi dai quali, con il mio aiuto, venivo inghiottito e triturato. Pur smembrato dalle ruote cilindriche, riuscivo a sentirmi “esistere”, come se la separazione tra spirito e materia non sortisse effetti significativi, se non che sarei rimasto bloccato lì dentro per sempre, al buio e in silenzio. Allora mi svegliavo sempre di soprassalto in preda alla paura di affrontare la giornata. Di recente questo sogno è tornato, a distanza di quasi vent’anni. Gli ingranaggi sono ancora lì, ma adesso sono troppo grande, meno “sottile” e non entro più nelle intercapedini del pericolo. Ora posso limitarmi a osservare dalla distanza le ruote girare. Senza alcuna premura di dovermici per forza tuffare dentro.

Maggio 2018, Villa Bellini (Catania)

Lello Spontini saluterà il suo pubblico con un concerto a Catania, data e luogo saranno comunicati prossimamente sulla pagina ufficiale dell’artista.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *