Da VIVERE inserto del giovedì de La Sicilia del 07.02.2019
“È dall’utilizzo dell’arte che l’aiuto al paziente psichiatrico viene spinto verso l’uso della propria intelligenza creativa”. Sviluppando la tesi del NeuroRealismo, page da questa affermazione il film Da grande voglio essere felice, quinta opera da regista del vignettista catanese Totò Calì progetto in fase di ultimazione e finalizzato a grandi festival, realizzato assieme al fidato Marcandrea Coco, e grazie agli amministratori unici Alessandro Russoe Enzo Priscodelle Comunità Terapeutiche Assistite Oasi Regina Pacis di Motta Sant’Anastasia (CT) e “Casa Johnny e casa Mary” di Paliano (FR).
«Se pensiamo all’arte come genio – esordisce Calì -, dovremmo avere la consapevolezza artistica dell’agire. Il paziente psichiatrico non possiede la storicità di questa consapevolezza artistica».
Il bandolo sta nella risoluzione del binomio “genio/follia”, tanto che il regista catanese incalza con una rivoluzione non da poco: «Non dobbiamo cadere nel tranello che il “genio” è “folle” a tutti i costi. Il nostro intento è di far capire alle persone che soffrono, il perché di questa sofferenza».
Dunque l’arte non necessariamente figlia del binomio di cui sopra, proprio perché attraverso la stessa, che si sviluppa nella performance, pittura, cinema… et alii, permette l’insorgere del proprio pensiero creativo.
«È proprio all’interno di questo pensiero, che creiamo delle storie. La nostra vita è una storia già da sé, per cui qualunque vita può essere portata in scena, dato che ogni vita ha in se una serie di emozioni interscambiabili con quelle delle altre vite. Ecco il NeuroRealismo, dove la neuralità, la psiche, l’Io, lavorano per un progetto artistico, dove non vi è bisogno di avere delle conoscenze specifiche, proprio come il Neorealismo, dove attori/non attori erano messi in scena dai vari Visconti o Pasolini ma potremmo citarne tanti».
L’analogia col neorealismo, dove vi erano punti cardini come l’utilizzo di tempi morti, strali psichici, o ancora di luci non di scena ma naturali è tutto ciò che ha permesso a Totò la lungimiranza nel comprendere che la cosaimportante declinata all’interno di ogni paziente che vi lavora, è la possibilità di far vivere la propria follia.
«Si diventa folle, perché probabilmente si è attivato un meccanismo di difesa da una realtà che ci ha rifiutato. Ci chiudiamo dentro la follia. L’arte che è una prateria dove la follia si può esprimere, non vieta più, ma lascia la possibilità di liberarsi. Attenzione però a non cadere nel tranello di intendere la follia come espressione di chi opera criminalmente, es. il lancio dei sassi dal cavalcavia. Quella è un’altra cosa».
Una spiegazione meravigliosa della follia, quale il suo ruolo tecnico nel film?
«La cosa più folle è la costruzione di questo film. Grazie alla disponibilità di Villa Di Bella di Viagrande e di Eurosoccorso di Pedara, che hanno messo gratuitamente a disposizione le location per girare il film, le due comunità che mai si erano incontrate, in 5 giorni hanno girato le scene, grazie all’empatia che si è creata in un ambiente facilitante, che possiamo chiamare prateria della follia. Ci siamo accorti che i comportamenti dei pazienti all’intero del sistema psichiatrico sono disfunzionali, mentre all’interno di un ambiente creativo e stimolante, diventano comportamenti di persone normali. Il film è una risposta a “cosa vede la follia?”».
Cioè?
«Nel film abbiamo imparato a godere assieme di capacità inesplorate, che nei laboratori creativi venivano fuori. Voglio essere più chiaro con un esempio jazzistico: Louis Armstrong, apprese a suonare grazie al direttore del carcere dove fu rinchiuso. Oggi sappiamo chi è il grande jazzista. Se non fosse finito in carcere? Parleremmo di Armstrong? In breve il paziente psichiatrico è una persona che sta male e lo si deve aiutare anche proponendogli strumenti per farlo stare bene nella sua follia, attraverso la ragione che è per voce di Kant “una isoletta piccolissima nell’oceano dell’irrazionale”».
La ragione della follia, e cos’altro?
«L‘uomo è costruito nella ragione ma non è fatto per la ragione che ti obbliga a vivere nelle convenzioni sociali culturali e non naturali. Non essendo libero ti incastra nella follia. Nel film si è dato spazio a Lei, ma non solo, il concetto di anima si è rivelato col classico “Metterci anima nel fare la cosa”, questo è agire con la ragione della follia. Nei laboratori si innescano meccanismi a catena che sono anche complessi da legare. Poi fai il film, e ti accorgi che esiste il simbolo, che ti sposta verso altre mete. Un “più“ matematico, diventa “croce” che simbolicamente apre scenari del vissuto, dunque ci riporta nell’altrove».
Vignettista straordinario dedito al sociale fino a giungere al cinema.
«Il cinema è l’arte più completa che rinvia altrove, grazie alla miscellanea di tante arti. Il film permette di vederci fuori da noi, rimandandoci all’accettazione e alla comprensione: guarda la locandina, c’è Hitler, il dittatore, interpretato da un paziente, quella è la malattia. Il dittatore permette che pensi solo come lui, quale peggior dittatore della malattia?»