Da Sicilymag del 03 dicembre 2019
Salvatore La Porta: «Bisogna aver cura della rabbia e timore dell’amore. È la regola principale della civiltà»
LIBRI E FUMETTI Si annuncia già come un successo il nuovo romanzo “Elogio della rabbia”, pubblicato da Il Saggiatore, dello scrittore ed editore (con Villaggio Maori) catanese: «La rabbia è il vero discrimine tra civiltà e barbarie. L’amore per ciò che possediamo, le nostre idee, o le persone a noi vicine rende egoisti e brutali. L’ira serve solo a difendere gli interessi di chi detiene il potere. Una rabbia sana, invece, si rivolge contro chiunque commetta un’ingiustizia»
Elogio della rabbia (Il Saggiatore editore), dello scrittore catanese Salvatore La Porta, classe ’77, non sta tradendo le aspettative. L’autore che lo scorso anno ha pubblicato sempre per l’editore indipendente milanese Less is more. Sull’arte di non avere niente, un libro che destò parecchio interesse sino a svuotare gli scaffali delle librerie in breve tempo, si ripresenta con un volume davvero notevole, che spinge al paradosso argomenti importanti che stanno prendendo la piega della demagogia a causa di qualche imbecille che sta coinvolgendo il popolo italiota. Ma non è solo questo Salvatore La Porta. Prima dei due volumi succitati non aveva fatto male, tanto che con il Villaggio Maori Edizioni aveva pubblicato il romanzo In morte di Turi (2008), la raccolta di racconti I racconti di Azina: bicicletta e partigiana (2012), il saggio Il giradischi trascendente (2015).
Tornando alla sua nuova fatica letteraria, il titolo non deve trarre in inganno; tutt’altro, può, infatti, aprire orizzonti a diverse interpretazioni. Di primo acchito, ho chiesto a La Porta, che è anche uno sportivo che pratica judo nonché balla («molto male» confessa) il tango, di darmi una spiegazione su questo particolare Elogio della rabbia, che possa far intendere bene l’approccio alla lettura. Attenzione però, non vi è alcuna pubblicità occulta: c’è solo che Salvatore La Porta dimostra una maturità consolidata nel mondo editoriale tourt-court. Non dimentichiamo infatti che è anche uno dei fondatori di quella piccina realtà catanese, che si è imposta all’attenzione nazionale che è Villaggio Maori Edizione, la macchina che ha aperto all’accademia dell’editoria a Catania. E tutto ciò non è poco. «La rabbia – incalza La Porta – è un sentimento fondamentale, il vero discrimine tra civiltà e barbarie: è sempre generata dal senso di giustizia, anche nei casi peggiori, e non ha nulla a che vedere con l’odio. Quando l’amore per ciò che possediamo, per le nostre idee, per le persone che ci sono vicine influenza questo sentimento, lo ammala rendendolo egoista e brutale. Allora l’ira serve soltanto a difendere i nostri interessi e quelli di chi detiene il potere: al contrario, una rabbia sana si rivolge contro chiunque commetta un’ingiustizia – al di là del nostro affetto e dei nostri desideri; è un ponte che unisce persone sconosciute e popoli lontani: non è la rabbia che porta le persone a combattere al fianco dei Curdi e dei Palestinesi, come un tempo aveva spinto mezzo mondo a schierarsi nella guerra civile spagnola? È l’amore, al contrario, che costringe il mondo in confini; che genera odio e guerre: in difesa della patria che amiamo, della bandiera che amiamo, dei confini che amiamo. L’amore è un sentimento ingiusto e pericolosissimo; quando infetta la nostra furia ci rende chiusi e ignari, pronti a divorarci l’un l’altro. Bisogna aver cura della rabbia e timore dell’amore: è la regola principale della civiltà».
Il tuo esordio letterario con Il Saggiatore è stato un exploit non indifferente: come procede con l’Elogio che hai appena presentato?
«L’Elogio della rabbia va bene, anche se sta vendendo meno de Less is more. Sull’arte di non avere niente: in realtà è il primo libro che è stato particolarmente fortunato. Credo che il tema fosse molto sentito. L’Elogio della rabbia, invece, può essere frainteso – soprattutto tenendo conto del periodo che stiamo vivendo».
Tratti temi che sembrerebbero anti convenzionali, quanto invece sono così reali, che però sembra quasi si vogliano evitare: che periodo stiamo vivendo Salvatore?
«Cerco di scrivere libri che siano utili. Il rapporto con la proprietà – materiale, ma anche affettiva e intellettuale – deforma le nostre vite e ci rende infelici e ingiusti. È il terreno in cui germina la vigliaccheria. Anche l’ultimo libro in fondo parla di questo: quando l’egoismo e l’interesse personale deformano la nostra rabbia, questo sentimento ricade in se stesso, marcisce nel rancore, perde le sue caratteristiche più nobili. È grave: una rabbia sana distingue la civiltà dalla barbarie».
Quale l’incipit che ti ha spinto a scrivere l’Elogio?
«Il periodo attuale tra nuovi e vecchi fascismi, l’odio verso i migranti e le guerre tra poveri, siano causati dalla degenerazione della nostra rabbia: quando è sana ci permette di difendere il prossimo dai soprusi, di modificare le nostre vite scardinandone i percorsi più sterili; è un sentimento che unisce le persone e rende più empatici. Non ha nulla a che vedere con l’odio».
C’è un perché funzionale a cause sociali?
«Credo di aver scritto qualcosa che sia utile. Credo, nuovamente, che abbiamo un bisogno estremo di recuperare questo sentimento, di utilizzarlo per proteggere (Bravissimo Salvatore!) chi subisce un’ingiustizia.
A chi è rivolto precisamente o a chi è dedicato?
«È banale da dire, ma la verità in fondo dovrebbe esserlo per definizione: per la gente che viene ammazzata nel nostro mare, lasciandoci così indifferenti e pacati».
Passiamo ad altro. Sei fondatore di una casa editrice, tra le più quotate del territorio italiano, sei un docente di scrittura creativa: è totalmente a pieno il tuo lavoro l’editoria?
«Sì, non ho mai desiderato fare altro nella vita. Ho lavorato parecchio per riuscirci e sono stato povero per un bel po’ di anni (non che adesso sia ricco), ma la verità è che se non fossi stato straordinariamente fortunato nell’incontrare persone come coloro con cui ho iniziato, Giuseppe Torresi, Virgina Tagliareni (fondatori assieme al La Porta dell’editrice etnea, n.d.a.) e tutte le redattrici che bazzicano il Villaggio Maori, non avrei ottenuto nulla di buono».
Soddisfatto delle precedenti opere, cosa ti aspetti da quest’ultima?
«Quando pubblichi un libro con una casa editrice prestigiosa come “il Saggiatore”, succede una cosa strana: la gente prende sul serio quello che scrivi. L’anno scorso ne sono rimasto sorpreso e preoccupato: ho scritto l’Arte di non avere niente a cuor leggero, e una volta uscito mi sono arrivate parecchie mail di lettori che avevano lasciato il lavoro qualche tempo dopo averlo finito. Scrivendo l’Elogio della rabbia l’ho tenuto a mente: quel che scrivi può influenzare realmente la vita della gente. È una cosa magnifica e preoccupante allo stesso tempo. Si ha l’opportunità di essere utili, ma anche di complicare l’esistenza delle persone».
Da editore, sino a che punto blindi il tuo scrittore? Lo “soffochi”?
«Direi di no, anche se bisognerebbe chiedere a loro. Rendicontiamo annualmente (sperando che ci sia qualcosa da rendicontare), anche se a volte possiamo ritardare perché siamo minuscoli e abbiamo tanti autori; il contratto dura 5 anni e si rinnova automaticamente, ma se un autore ha l’opportunità di ristampare con qualcuno più importante di noi (e sono tanti) siamo pronti a lasciarlo libero. È vero che abbiamo un diritto di prelazione sulle opere future, ma se non rispondiamo entro un tot di mesi, l’autore è automaticamente libero di proporre il testo ad altri: in realtà, però, non pubblicheremmo mai un autore che vuole firmare con un’altra casa editrice. Se non c’è collaborazione con lo scrittore, stampare un libro è tempo e denaro perso».
E’ necessaria una connotazione politica per pubblicare con Villaggio Maori?
«Siamo una casa editrice di sinistra, attenti ai temi del femminismo e alle questioni di genere, ai diritti dei più deboli. Abbiamo un’identità precisa che negli anni si è andata rafforzando dal punto di vista editoriale».
Riporto un un esempio. Metti che io sia un sognatore demo-proletario, o un romantico del fascismo, o ancora un democratico e cattolico dunque democristiano. Se scrivo a favore del femminismo ma non sono e scrivo bene, riesco ad essere pubblicato da Villaggio Maori anche se non sono di sinistra?
«Non siamo così rigidi: con le persone e sulle idee si dialoga. Certo, non pubblicheremmo mai un libro di un fascista, questo no. Credo che il fascismo sia al di fuori del campo democratico, sia da un punto di vista storico che teorico. Anche se per andare a fondo nella questione servirebbe più tempo e spazio di un’intervista».
Come scrittore lavori da solo o hai un agente letterario?
«Al momento da solo, anche se a giorni dovrei firmare con un agente».
Uno scrittore che approda ad un editore importante come il Saggiatore senza mediazione di un agente ha sicuramente attributi enormi. Come sei giunto così in alto?
«Ho mandato loro un vecchio romanzo rimasto inedito, e mi hanno risposto che era scritto bene ma che non era il tipo di letteratura che vogliono pubblicare. Ho pensato che fosse la classica risposta da editore: anch’io ne do di simili. Invece dopo qualche mese mi hanno proposto di scrivere l’Arte di non avere niente».
Guardiamo indietro alla recente storia culturale e politica del libro in Italia. La borghesia e l’aristocrazia hanno usato spesso i libri come mobilia della casa mentre gli operai di sinistra che si acculturavano grazie al libro, faticavano ad ottenerlo, ore e ore a lavoro per poi gioire di ciò che sconoscevano. Nel decennio caldo della contestazione dal ’68 al ’77, siamo passati dalla rivoluzione tout-court agli anni di piombo. La destra e la sinistra sparavano, facendo favori al sistema democristiano (questo è ciò che è accaduto in Italia). Giovanissimi, con armi in mano, quasi per un fine comune, finivano le giornate facendosi del male, anzi facendosi fuori. La cultura sembra aver fallito dove invece tutti ipotizzavano che potesse creare apertura e confronto?
«I libri e le culture non sono tutti uguali: è un errore pensare che “leggere” sia sufficiente alla creazione di benessere e democrazia. Dipende da cosa si legge, dalla maniera in cui le nostre letture si incastrano con la nostra vita e le persone che frequentiamo, la maniera in cui sedimentano sul nostro carattere e sull’educazione che abbiamo ricevuto. Diciamo che la lettura migliore, quella più sana, dovrebbe portare al pensiero critico: al continuo tentativo di falsificare le nostre convinzioni. Falsificare e non verificare. Per fare questo bisogna lottare contro la tendenza innata dell’essere umano ad amare quel che lo circonda, a farsene scudo, a farsi costringere in forme e idee sempre più rigide: identificarsi in un’idea aldilà della sua correttezza, in una patria o in una bandiera o – sempre più frequentemente – in una proprietà. L’amore e l’identità sono veleni sottili, quasi inevitabili, ci costringono a difendere anche quel che improvvisamente può sembrarci indifendibile: un’idea che abbiamo falsificato, ma sulla quale abbiamo fondato la nostra vita, o un figlio che commette un delitto. Avere un’identità e amare sono attività naturali dell’essere umano, ma rischiano di organizzare la società in schiere e branchi, di scagliarli l’uno contro l’altro. L’unico antidoto è il pensiero critico».
Proprietà riservata Sicilymag ©