Da SicilyMag del 24 marzo 2020
Francesco Lirosi e i premi al Don Michelangelo: «Terra e sociale, con fatica per stare bene»
CALICI & BOCCALI Il suo Don Michelangelo 2017, Nerello cappuccio rosso biologico, ha fatto vincere all’azienda calatina Barbadoro il ‘Gold American Award’ e l’inglese ‘Women’s Wine & Spiritis Awards’. Un’enorme soddisfazione per l’imprenditore calatino, molto impegnato nell’ambito della cooperazione sociale, arrivato al vino grazie alla tradizione di famiglia: «Condivido questi premi con chi, assieme a me, ha amore per la terra che genera eccellenze»
Per la prima volta in assoluto il Gold American Award, prestigioso premio enologico assegnato ai vini, approda in Sicilia. Chi se lo aggiudica è il rosso Don Michelangelo, prodotto nelle vigne del calatino dall’azienda agricola biologica Barbadoro di proprietà della famiglia Lirosi.
L’imprenditore di riferimento con cui dialoghiamo è Francesco Lirosi, calatino che vanta una storia di quelle che ad oggi mancano nel panorama contemporaneo dove la tecnologia ha fatto perdere sapori, profumi ed emozioni di un tempo neanche troppo lontano. Lo stesso Lirosi, con molta gentilezza precisa: «È giusto riconoscere il merito a quanti collaborano e lavorano su queste terre, ricordando che lo stesso vino – il Don Michelangelo che prende il nome di mio padre onorandone la memoria per ciò che mi ha insegnato non solo nel settore agricolo e in quello emozionale del rapporto padre figlio – si è imposto già dal 2018 all’attenzione internazionale di premi di livello. Circostanza che mi ha sì sorpreso ma non del tutto, però».
Perché non l’hanno sorpresa del tutto?
«Proprio perché quel riconoscere il giusto merito a chi lavora è una onorificenza che a loro spetta, per i sacrifici e l’interesse mostrato nel produrre al meglio, pronti a fronteggiare quei fenomeni che solo chi ha a che fare con l’ambiente conosce, ad esempio il meteo. Oggi sappiamo qualcosa in più ma un tempo se ne sapeva veramente poco dei fenomenti atmosferici, vedi le piogge che se non venivano rischiavano di rovinare lavori di un anno intero. Va da sè che il sacrificio, lo sforzo, la dedizione, e il non avere fretta non potevano non portare a dei riscontri così elevati… Certo, aggiudicarsi due medaglie d’oro e una di argento (sorride quasi imbarazzato, nda), beh, questo si, questo mi ha stupito. Sono sincero».
Riuscire a fare un vino di certa qualità in tempi in cui sono tante le produzioni – «i sacrifici giorno dopo giorno si fanno nello stare in vigna, perché il vino non si fa in cantina, lo si fa in vigna» sottolinea Lirosi -, è cosa non da poco, che ripaga e riscatta ancora una volta la Sicilia, come madre di alcune delle migliori terre per questa bevanda che storicamente è chiamata “il nettare degli dei”. Vino che purtroppo negli anni ha anche subito brutte cadute (non dimentichiamo a metà degli Anni 80 lo scandalo del vino al metanolo, vino tossico che causò molti decessi per gravi tossicosi), causate da altrettante persone che nulla avevano a che fare con l’amor per la terra, e con la legalità.
Lo scorso novembre al Women’s Wine & Spirits Award di Londra, il Don Michelangelo del 2017 ha permesso a Francesco Lirosi di aggiudicarsi, grazie alle degustazione dei più importanti palati femminili del mondo enologico, il primo grande riconoscimento internazionale. Questo Nerello Cappuccio cavalca l’onda non del marketing – «La produzione è molto limitata, ho un piccolo terreno ereditato dal mio amato papà» sottolinea Lirosi -, quanto quella dell’intellighenzia enologica planetaria. Nel 2019, infatti, si amplia il fenomeno dell’azienda agricola biologica Barbadoro, perché non soltanto il successo si suggella con la Silver Gold al miglior Vino rosso biologico italiano “Don Michelangelo”, ma evidenzia che la bontà di una piccola realtà che produce con una lentezza “kunderiana”, che volge esclusivamente alla qualità.
Ed ecco che dopo anni nasce il Siira, che con un gioco di parole richiama etimologicamente la sera (sira, in siciliano), intrecciandosi con la storia del vitigno internazionale Syrah. Ma le sorprese in area vinicola, ci racconta Lirosi, non sono finite: «Il prossimo anno dovremmo attivare la produzione di un Perricone…».
…Un vitigno di cui si è perso molto, strada facendo…
«Esatto, un antico vitigno siculo che stava estinguendosi. Insieme a diversi altri produttori stiamo stiamo lavorando per preservarlo. Ancora non so che nome darò a questo nuovo vino Perricone, non so come si evolverà, ma anche in questo caso nutro lo stesso rispetto per chi assieme a me ha amore per la terra che genera eccellenze».
E ancora non è tutto. L’azienda-alcova Barbadoro produce anche farina, succo di arancia e marmellate di arance. Queste produzioni, tutte rigorosamente a trattamento biologico, dunque tutto come la terra consegna, stanno riscuotendo successo similare a quello del violaceo vino, ma la produzione, ribadisce Lirosi, è molto limitata: «Meglio il poco ben lavorato che origina qualità».
Lei ha citato più volte suo padre, mi sembra di percepire un fortissimo legame e il rispetto per ciò che le ha lasciato, erro?
«Ha colto bene e le porto un esempio. Il Syrah, che è un vino di produzione internazionale, qui, in questi campi, mio padre lo piantò per produrlo, quindi non lo espianterei mai. Vi è un contatto diretto, con l’uomo che mi ha generato e che prosegue in me e nella mia famiglia, generazione dopo generazione».
Cioè?
«Queste terre erano già dei miei avi, oggi sono mie di e mio fratello, dove abbiamo deciso di separare il terreno per agire ognuno per proprio conto».
Dunque una scommessa, non legata alla moda. Perché la vostra qualità adesso è riconosciuta nel mondo?
«No! Il vino è sempre stato prodotto nella mia famiglia. La tradizione è quella che ho voluto percorrere: nessuna moda, me lo ha detto lei stesso, sulla qualità, sulla lentezza, sull’agire con i canoni biologici senza mai abbandonare l’ambiente. Non è una scommessa, e forse quel legame metafisico coi miei avi e con mio padre in primis nei tempi attuali sta avendo un riconoscimento planetario perché i tempi sono cambiati».
Un tempo, che lei sappia, che soddisfazioni vissero i suoi parenti legati a queste produzioni agricole?
«Posso raccontarle un aneddoto che risale a diverse decine di anni fa. Ero bambino, proprio bimbo, e ricordo che davanti la porta di casa, c’era chi appendeva l’alloro».
Era indice di qualche laureato?
«Certo che no!» ride di gusto l’imprenditore siciliano che incalza: «Indicava che in quelle case vi erano le botti e vi si poteva fermare per acquistare il vino padronale, insomma quello che si direbbe il vino fatto in casa».
Non conoscevo questa tradizione e stupefatto da tanta bellezza per come il mio interlocutore racconta la storia della propria vita, intrecciata a quella della propria famiglia, a quella del luogo di appartenenza mi spingo oltre.
Dunque è reale che chi un tempo possedeva anche un piccolo pezzo di terreno, coinvolgeva la prole a seguire le tracce familiari?
«Tutt’altro. Mio padre ci invitò ad abbandonare il concetto e l’idea di terra, ci fece studiare. Dopo la maturità mi iscrissi alla facoltà di Giurisprudenza. Mi sono laureato coi miei tempi perché ancora ventenne, dopo il liceo, avevo la voglia di autonomia, mi capitò un’offerta di lavoro che accolsi e che mi fece interrompere gli studi, volutamente sia inteso, per diversi anni, perché quel lavoro che mi offrirono, oggi è la mia attività primaria. Le dirò di più: esistono tanti paralleli tra la terra e la mia professione».
Cosa le offrirono?
«Iniziai a lavorare come animatore psichiatrico in una comunità terapeutica. Mi si aprì un mondo. Il malato, non è quella persona che nell’immaginario collettivo viene appellato come “pazzo” nell’accezione ridicolizzante e negativa. Il malato ti mette di fronte ad un mondo che all’inizio sconosci e se ti prende, sicuramente ti appassiona, e ti fa crescere tantissimo professionalmente, proprio alla stregua di chi lavora e ama la terra. L’ambiente non dico che è tutto, ma rappresenta almeno l’80% per capire che il sacrificio ripaga sempre. Un fiore che sboccia è una persona che allenta le proprie tensioni psichiche».
Investendo nel sociale, lei non ha temuto di andare contro un modus operandi del Sud Italia, che vuole che per aprire anche un piccolo gruppo appartamento o una casa famiglia che accoglie chi vive il disagio psichico, i finanziamenti tardano sempre ad arrivare.
«La Sicilia è la mia terra, coi pro e i contro. Se fai un passo alla volta, ci entri dentro e capisci perché ritardi o fallimenti si innescano, ma sai anche che sulla scia di una continua esperienza, coinvolgendo e investendo sui collaboratori, che possano essere gli utenti e gli operatori, che anche se non si capiscono subito, ma vivono di emozione di sensazione, di aiuto alla persona insomma, ecco se ci sei dentro comprendi che questi sono valori aggiunti e che le preoccupazioni sono altre. Quando fondai una mia cooperativa, al contempo continuavo a lavorare come animatore, non esisteva nulla al di fuori degli ex manicomi che, però, lavoravano come i vecchi manicomi. Capii l’importanza dell’impegno ad aiutare l’altro, perché da quell’aiuto, anche se ne ricevi una reazione non soddisfacente, capirai come è bella la cooperazione e come è importante che una mano tenda sempre l’altra».
Beh, la sua vita è cambiata eppure lei fa di tutto per non cambiarla, è sul trattore, è in comunità, presenzia alle gioie e ai disagi dei suoi assistiti e dei suoi operatori…
«Ma lei pensa che si fa un tentativo e si quietano le difficoltà? Tutt’altro, si centuplicano, specie se vuoi dare un buon servizio. È come nella metafora del calcio, anche questo oggi ridotto a tecnologia e spreco, se manca la dirigenza, tutto crolla. Altro che insegnamento all’educazione sportiva! Guardi in Italia, chi ha una forte e seria dirigenza, garantisce lavoro, garantisce bellezza e serietà. Ci stanno i richiami, sono necessari, per mantenere una linea che garantisca per tutta la vita, così come ci stanno dei riconoscimenti, è una legge naturale quella della legalità, che in un modo corretto e coerente, può far sempre più crescere questa mia amata terra».