La svolta nella vita di Giovanni Neri è il “Diario di un cane felice” – L’intervista
Lo scrittore e giornalista narra di Aragon , esserino che ha cambiato la vita non solo del suo padrone
Scrittore raffinato con la passione per gli animali: è Giovanni Neri, giornalista professionista in pensione (ma quando un giornalista va in pensione? Noi crediamo mai!), nonché ufficiale superiore della Riserva Selezionata dell’Esercito con alle spalle missioni in Patria e all’estero, si racconta dopo l’uscita del suo nuovo romanzo biografico ‘Diario di un cane felice‘ (CTL Edizioni), dedicato al suo border collie Aragon, ma non manca di rivelarci spunti del precedente pluripremiato “Capraia Akbar”, che nella forma del noir poliziesco narra fatti concreti di dolore e follie, nonché reali. Accogliente e disponibile nel farci sapere anche notizie che vanno oltre l’editoria, ci ha donato una giornata di interesse a 360°.
Ben trovato Giovanni, non nascondo certa premura nel sapere di queste due ultime opere che ha pubblicato negli ultimi anni: due libri diversi da loro, ma che potrebbero avere un filo conduttore… oltre alla gioia di un cane?
«No, sono due opere diverse. “Capraia Akbar” è un noir, poliziesco e pulp. “Diario di un cane felice” è un libro gioioso e commovente allo stesso tempo. Intanto ho iniziato a scrivere il secondo capitolo della “trilogia della guerra e della morte” che però non è un seguito di “Capraia Akbar”: “La donna di sabbia”. Storia di un ufficiale medico donna della Folgore che in Afghanistan durante il ritiro delle truppe della Coalizione, incontra il suo amore di quando era universitaria. Il terzo sarà invece “Il babbo di tutti i gatti”, storia di un vecchio combattente della Repubblica di Salò fuggito dall’Italia dopo la fine della guerra e alla fine tornato a vivere all’Elba dove si occupa di accudire i gatti randagi. Il giorno però che…»
Cosa…?
«Il giorno però che… non posso svelare un elemento fondamentale della trama, diciamo solo che da ultra ottantenne pieno di acciacchi ritroverà la sua determinazione di combattente di quando aveva 20 anni».
Come e quali sono le muse che l’hanno ispirata per questi due contenuti in questi due romanzi?
«“Capraia” è un romanzo distopico basato sulla cronaca e sul moltiplicarsi, dopo la caduta di Isis in Medio Oriente, degli attentati dei “lupi solitari” islamici. “Diario” è invece nato in Afghanistan dove ho prestato servizio come ufficiale. Da laggiù potevo parlare via skype o per telefono con tutti quelli che avevo lasciato in Italia. L’unico con il quale non potevo parlare era il mio cane. Per questo, per sentirmelo vicino, ho cominciato a scrivere i nostri pensieri e le nostre avventure».
Dal dramma del terrorismo contemporaneo, che ha fatto vittime e incute timore e terrori, alle emozioni del suo e quelle che provoca un amico a 4 zampe : un modo per esorcizzare il dolore che l’uomo crea ad altri uomini, grazie alla bellezza e alla sensibilità che può far emergere un compagno di vita quale un animale?
«Esatto».
Il premio Bancarella 2020 Piernicola Silvis, nel suo nuovo romanzo fa parlare un personaggio che afferma: “non si osi alcuno a dire ‘sei un animale’ per offendere, perché una tigre non farebbe mai una cattiveria a un cucciolo”: passando per i suoi due libri quanto potrebbe essere ‘bestiale’ la forza di una animale nel far cambiare i modus vivendi e pensandi di un essere umano cattivo o totalmente disturbato che nel nome della fede uccide?
«Impossibile. Per gli estremisti islamici una donna è meno di un animale. E un animale è nulla. La sensibilità animalista non ha ancora raggiunto menti ottenebrate che sono rimaste al 1400, quando anche da noi, in nome della fede, si bruciavano le “streghe” sui roghi e gli animali erano considerati, come la maggior parte degli uomini, cose senza diritti».
Nel suo romanzo ‘Diario di un cane felice’, il mondo è visto dagli occhi di un uomo che si rapporta con il nuovo amico a 4 zampe, ma anche dagli occhi dello stesso cane, Aragon, e ancora da anche quelli di un gruppetto di altri animali che già vivono la dimensione dove arriva Aragorn: sarà felice perché è bene accolto e/o renderà ancor più felice consegnando la sua visione del mondo a lei e ai vicini di casa e ai parenti?
«“Diario” vuol dare voce, come un vero e proprio diario, a lui, a quello che vedono i suoi occhi, a quello che sente, a quello che immagina. Scrivendolo ho cercato proprio di vedere il mondo da 50 cm. di altezza, proprio come lo vedono i cani, con sentimenti semplici e diretti come semplici e diretti sono i nostri amici. Non c’è spazio per il tradimento, gli interessi, le furbate tutte umane. I cani, ma gli animali in generale, sono come bambini di 2 anni: puri, innocenti, entusiasti».
Quanto un animale può essere terapeutico senza che venga sfruttata al sua identità di essere vivente?
«Tantissimo. Aver un cane accanto, ma un animale in generale, ti responsabilizza, ti dà allegria se sei triste, ti travolge con il suo entusiasmo se sei già felice. E’ un compagno di vita. Peccato che, appunto, la loro di vita sia così breve».
La sua produzione letteraria: quale il quid che le fa iniziare a scrivere da narratore anche se lei era già un valido professionista della comunicazione?
«Ho cominciato a scrivere romanzi al momento in cui ho smesso di scrivere per i giornali. Quello era un lavoro: con regole, tempi e lunghezze obbligate. Questo è un divertimento, un gioco. Un gioco che mi permette di liberare la fantasia. Restando ovviamente vicino a quello che succede nel mondo reale al quale sono stato legato per 40 anni di professione e al quale rimarrò legato per sempre».
Encomi, premi, riconoscimenti, di cosa sono state investite le sue opere? E ancora: lei crede che i premi dai più piccoli ai più noti siano cristallini?
«Ho partecipato con Capraia Akbar a diversi concorsi e ho vinto il secondo premio al Tagete di Arezzo e lo Special Best a quello di Montefiore. E’ stata una bella soddisfazione. Tutto pulito? Non ho abbastanza esperienza per poter dare un giudizio…»
Lei è un giornalista professionista, ha tanto scritto: questi due libri sono considerabili opere prime?
«Avendo sempre scritto, appunto, non so quanto possa considerare prime opere i miei due libri, però diciamo di sì, a parte qualche migliaio di articoli, sono due prime opere (sorride, n.d.r.)».
Andiamo oltre: lei è anche un Ufficiale superiore della Riserva Selezionata dell’Esercito e il suo c.v. annovera partecipazioni come addetto alla Pubblica Informazione a missioni in Patria e all’estero: magari siamo fuori tema, magari no, può raccontarci qualche episodio o aneddoto degno di un grande romanzo storico?
«Come ufficiale addetto alla Pubblica Informazione dell’Esercito ho vissuto l’altra faccia della medaglia: ovvero, non cercare le notizie ma fornirle ai media. E’ stato difficile, gratificante e impegnativo perché ribalta il ruolo al quale sei abituato. Ma nell’Esercito ho trovato motivazioni che non avevo mai avuto, forse ho sbagliato lavoro… Episodi e aneddoti? Decine, belli e angosciosi. Ve ne racconto solo uno, divertente. Eravamo a Farah e avevamo accompagnato dei giornalisti in visita alla nostra base afghana. Alla fine della giornata, mentre i giornalisti andavano nelle loro tende, io e il sottufficiale spagnolo che mi accompagnava ci siamo concessi finalmente una doccia. In ciabatte e con l’asciugamano sotto il braccio ci siamo avviati ai bagni, abbiamo fatto la doccia e mentre tornavamo alla nostra tenda abbiamo sentito sparare una raffica dopo l’altra dall’esterno della base. Ci siamo guardati e mentre lo spagnolo urlava “Los Talibanos !!! “ siamo piombati nella nostra tenda e dopo un minuto siamo usciti in mutande con giubbetto paraschegge, elmetto, anfibi e mitragliatore in mano. Solo che uno che passava ci ha guardato e chiesto “Ma dove andate? Macché Talebani, son gli americani che a quest’ora sparano sempre al poligono qui fuori…”».
Cosa bolle nel pentolone di Giovanni Neri?
«Ve l’ho detto, “Capraia Akbar” è il primo della trilogia “Della morte e della guerra” e sarà seguito da “La donna di Sabbia”, racconto della riscoperta di un antico amore tra due militari (uomo e donna) italiani in Afghanistan e da “Il babbo di tutti i gatti” storia di un vecchio reduce di Salò. Due argomenti difficili, che faranno certamente storcere la bocca a qualcuno, ma i politically correct non è nel mio stile».