Da L’Urlo del 16 settembre 2020
I diversi amori malati nel libro di Nicoletta Prestifilippo – L’intervista
L’autrice etnea trapiantata a Roma, racconta il suo ‘secondo’ esordio con Divergenze Edizioni… volando a quota 700 copie
Dalla lettura de Gli Amori Malati, pubblicato da Divergenze nella collana “(ec)citazioni”, nel Giugno 2020 (€ 12,00), «tra le mani di poco più di 700 persone», come asserisce la stessa autrice, avviene l’incontro mistico-virtuale con colei che lo ha plasmato, pensato e scritto: Nicoletta Prestifilippo. La sorpresa è scoprirla conterranea. Catanese trapiantata nella provincia della Urbe della quale si può dire tantissimo. Una miscellanea di rarità, di perle, di gocce di platino che ti prendono e rapiscono, colpiscono e affondano nella bellezza. Perfezione astratta da far paragone con un’opera di Jean-Michel Basquiat, una qualsiasi, come qualsiasi tema tratta e affronta l’iperbolica mente pensante dell’autrice che al chiederLe una presentazione di sua sponte, sulla medesima opera sua incalza: «Un lungo filo che unisce epoche e generi differenti: ciò che li accomuna è la spinta e il furore, le malinconie e il dolore sordo, ripetuto a oltranza, ingoiato a forza tra i denti stretti, quando si parla di amore malato, spezzato, in perenne affanno e mai potuto coltivare».
Che amori narri nel tuo nuovo romanzo?
«Sfioro, mi addentro, afferro un amore sensuale e affilato, amore deviato e deviante anche per il corpo da ricondurre a misure soltanto ideali. Il tutto si traduce quasi sempre in un male di vivere strisciante: amore malato anch’esso offerto a un’esistenza che non si sa vivere appieno; e tuttavia lo si vorrebbe fare, come desideravano Antonia Pozzi, Mireille Havet e la carnale Alejandra Pizarnik che nomino nell’itinerario dei miei Amori».
E nell’idea di famiglia si erge un amore meno malato?
«Non meno ma diversamente malato. Cambiano le dinamiche: gli affetti, l’identità, l’educazione che rende quasi compiuto l’individuo. Alla base di tutto e nelle migliori ipotesi, vi è un sentimento integro, pulito, mosso da buone intenzioni. Un nucleo familiare, per definizione, dovrebbe offrire ogni pacificato e sano slancio; ma non è impossibile che tale proposito venga a mancare. Da un sentimento leso, vacante, viene fuori un’esistenza scombinata che trova un posto di trincea nel vero come sugli schermi. Nel mio scritto cito Kynodontas del regista Yorgos Lanthimos per dare un assaggio di ciò che intendo; e nella pellicola è chiara la metafora: un padre dispone delle vite dei figli come un bruto alchimista, inventa per loro un mondo intero al chiuso di una casa. Tutto il resto deve restare fuori. Fuori è pericolo. La smania di proteggere chi si ama, portata a livelli paradossali, insani, non può che tradursi in male opprimente, male da togliere il respiro. E in una prospettiva simile, i rimedi a quel male non possono che essere malsani ed estremi».
Dettaglio di un tema vasto dunque l’amore malato?
«Si tratta di una realtà amorosa larga, alta e ben nascosta, anche quando pare manifestarsi a chiare lettere. Ho tentato di avvicinarmi all’argomento guardandolo da punti di vista differenti e complementari: in arte, in musica e in letteratura, c’è solo l’imbarazzo della scelta».
Non è facile accedere a te, ti descrivi, al di là dell’opera, per i nostri lettori?
«A dire il vero non mi piace parlare di me, ancora meno per elenchi. Così quando devo darmi alle autobiografie temo il peggio, e lo realizzo puntualmente.
Ma posso dirti che: sono nata a Catania il 31 Agosto del 1984. Ho vissuto in un paesino in provincia (Aci Sant’Antonio) fin dopo i vent’anni. Prima dei trenta mi sono trasferita a Roma: di nuovo una provincia, ma più ampia. Ho studiato lingue per un po’, nel frattempo ho cambiato troppe idee e loro per dispetto e per fortuna, hanno cambiato me».
E come ti hanno cambiata?
«Devo essere stata un gatto o una conchiglia, in un’altra vita.
Poi ho perso l’occasione di essere perfetta: sono nata umana. Arrivate a un corpo finito in protesta, a quelle idee non è rimasto che appellarsi a veli, corazze, sguardi approssimativi, scintille. È lì che hanno lavorato, e ancora mi accompagnano quando mi guardo e scopro altri veli, corazze rinnovate e sguardi lunghi e coraggiosi, molto più che attenti. Le scintille le conservo volentieri: a tratti si fanno corpose e agili come lapilli».
Non scrivi solo libri…
«La webzine Kultural è stata la mia prima casa virtuale, casa di parole mescolate alle parole altrui: lì ho raccolto e raccolgo ancora tutto il buono che c’è.
Poi sono arrivate in ordine sparso: Quasicultura, Nazione Indiana, Magazzini Inesistenti (ma su quest’ultimo mi pare di aver lasciato solo tracce fantasma), Cultora. Spesso in modalità mordi-e-fuggi».
Fino a fondare qualcosa che richiama una locuzione latina, ma che distorci
«Esatto! ho creato Tabula aЯsa, ma è una ir-realtà piccola e timida. Fatico persino a definirla un “blog”».
Gli Amori Malati non è il tuo esordio: nel 2017 ti imponi all’attenzione del pubblico con La Bellezza dell’Attesa. Ce ne parli?
«Più che impormi, mi sono affacciata al pubblico quasi in sordina. Edizioni Della Sera ha ritagliato uno spazio per me e per un romanzo che spero risulti lieve come lo penso io: non morde come certi scritti, non solleva il mento, non si fa strada sgomitando. Parla di una piccola evoluzione, personale e immaginaria; ed è una storia d’amore anche quella. Ma piuttosto sana. Resto una principiante, in ogni caso: dopo l’esordio viene un secondo esordio, e se va bene pure un terzo. Sono esperta in nulla e curiosa di tutto, e Gli Amori Malati segnano un inizio diverso da tutti quanti gli inizi saputi fino ad ora».
Divergenze edizioni, una realtà socio-culturale, i proventi delle vendite sono destinate ad associazioni a scopo di supporto e aiuto ai più deboli, una realtà con editor, correttori di bozze, una casa editrice che può competere per qualità solo con poche altre: come ci sei approdata?
«Conosco Divergenze dai primissimi passi: quando ancora era una casa senza tetto, e gli abitanti erano giusto poche bozze e tanti sogni a traboccare da una lunga fila di cassetti. L’editoria è un campo in cui mi inoltro con passi leggeri e distanti, conosco certi meccanismi solo per sentito dire. Preferisco muovermi in ambienti armonici, rilassati, divertiti e pieni di fermento con il mio carico di trambusti interiori e picchi di ingenuità da non tralasciare: sono una fedele discepola dell’emotività; e quella si sa, segue tempi anarchici che fortunatamente nessuno mi chiede di forzare. Se esiste un’ispirazione, di certo viene dal confronto: sono approdata a Divergenze come a un porto sicuro, parlando con poche sillabe e tanta partecipazione, ancora e soprattutto emotiva, infilata tra virgole e punti, gustose anteprime, approfondimenti e impronte che con contentezza vera lascio ovunque, grazie a anche a un editore che ha un ego pari a un quarto di granello di sabbia e un entusiasmo bambino che mi incolla alle storie di molti, una volta di più».
A Roma o nei suoi dintorni, come si orienta la tua riflessione?
«Vivo, respiro e sbando a Roma, un pezzo spostata dal centro. Così per sguazzare in aria di città devo metterci un’oretta buona e tanta voglia di tornare con calma, di perdermi tra le viuzze di un luogo largo e intenso, che è arte piena e fulgida soprattutto quando non lo sa, quando non si veste a festa; e fra teatri, cinema piccini e deliziosi, spazi che esplodono un verde imprevisto, stili appiccicati ai monumenti e ai palazzi così diversi tra loro, concentrati nel perimetro ridotto di quartieri grandi un salto. L’aria e i colori del mare mi riempiono per gran parte del tempo le tasche, i polmoni, gli occhi; e per una in precario equilibrio non è strano guardare l’orizzonte e sentirsi in balia di piccole spinte trasognate e letterarie da applicare al quotidiano: vi sono abissi di carta dai quali mai vorrei liberarmi. Il mare e tutta la spiaggia, specie in inverno, sono un ottimo scrigno per quei tesori. Volendo essere concreta ma non troppo: ho lavorato coi bimbi ma senza pretese di insegnare loro alcunché; ho appreso più io da loro: una babysitter bimba sul serio, stiracchiata in spazi da adulta che non la investono mica del tutto. Mi sono poi infilata in mansioni da grandi, cose tipiche da ufficio. Ancora, con sommo torto e altrettanta delizia, sono niente e tutto in potenziale».
Ti sei ispirata o cos’altro per Gli Amori Malati?
«Il suggerimento iniziale mi è venuto proprio da Fabio Ivan Pigola. Doveva trattarsi di qualcosa di più ridotto, ma la sintesi mi appartiene solo nel parlato, dunque eccoci: è stato facile perdersi in atmosfere taglienti, salmastre, malinconiche, magnetiche, al veleno. E si potrebbe continuare per un pezzo usando le mie riflessioni come una specie di trampolino. E poi crogiolarsi negli atti di bellezza che sono arrivati fino a noi da tempi lontani. Risanarsi così, per quanto possibile».
Una domanda che mi necessita fare a tutti: perché e per chi lo hai scritto?
«I miei perché sono mutevoli, e spesso hanno a che fare con la necessità di svuotamento: tutto dentro non si può tenere, e serve spezzare l’incantesimo dei circoli viziosi e dei pensieri chiusi e sfilacciati, per godere di scorci tutti nuovi. Di parola in parola, tra simili e dissimili ci si riconosce. E mi pare un buon modo di venire a contatto col nuovo e con l’incognita, anche restando isole: siamo tutti piccole isole confinanti. Chi si sceglie lo fa guardando il mare altrui. Nessuno abbandona niente, ci si sfiora soltanto. Si presta a qualcuno il proprio spazio, sapendo che non resterà immutato. Ed è bello sia così, spaventoso e desiderabile al contempo. Quanto al per chi ti rispondo al presente: scrivo per starmi al fianco e spingermi un poco in avanti quando mi incastro in ciò che non mi serve. Scrivo per chi mi legge e si riconosce in qualcosa: quando mi avvoltolo in una ripetizione a ostacoli, oppure mi soffermo su ciò che mi pungola, mi risveglia, mi crea stupori alti e perfino cadute, mi viene voglia di dividere tutto senza imperativi: chi vuole può prenderne un pezzo, e magari raccontarmi cosa torna o non torna nel mio girare in tondo. Scrivo per tenere in caldo le cose che non dico, per dare forma alle malinconie che mi ricalcano e non fanno paura. Gli Amori Malati è un ricordo di molti istanti lasciati spesso a decantare: le cose che toccano, placano, agitano e riempiono, bisogna che riposino per tornare e mostrare quanto sfugge a un primo approccio; ed è bello mescolarsi con loro, rimpicciolirsi dinanzi alla grandezza di esperienze e atmosfere che difficilmente si potrà duplicare. Sono state e non sono più, eppure saranno per sempre: da qui il genio, il talento, l’arte in ogni declinazione. Ho pensato fin dal principio agli Amori Malati come a una specie di grimorio: una malia, un riflesso, una pozione per risolvere nulla, che però ha una consistenza buona e invita. L’ho scritto per chi non mi conosce e per chi invece sa bene in quali posti mi nascondo, quando non sono in me».
Credi a premi, concorsi et alii?
«Dicono si giochi per vincere. Tutto sta nel capire quale sia la vittoria-vera, al di là della più evidente: ho partecipato a un solo concorso, tempo fa, ma in tutto il mio disordine non trovo nemmeno più le bozze del racconto presentato. Ricordo di aver vinto un bel mucchietto di “chissà”, uniti a una moderata attesa e alla mia solita curiosità. Sono cresciuta un bel po’ da allora, e non solo da un punto di vista anagrafico: ci si può definire centrati anche se si ha tutto da aggiustare, quando si capisce il guasto e ad un tratto sorge la necessità di pasticciare sopra quello soluzioni (im)probabili, per non soccombere agli sgambetti di un animo inquieto. Eppure ad oggi non credo parteciperei a concorsi/premi letterari con uno spirito diverso rispetto a quello di una decina di anni fa».
Da poco uscito e già se ne parla tantissimo: aspettative?
«C’è chi dice che le aspettative sono nemiche della serenità. Io so soltanto che il mio libro si trova tra le mani di poco più di settecento persone, e mi pare un numero gigantesco. Qualcuno a lettura finita ha avuto parole morbide per me, ne sono felice. Poi c’è chi ha messo occhi, mani e cuore nel progetto: da editore e redazione in poi, non mi metto a fare nomi. Dico solo grazie».