Da Letto, riletto, recensito! del 1° marzo 2019
Il ritorno al romanzo di Ismete Selmanaj Leba, afferma due variabili. L’editrice Besa in primis e una narrativa fortemente dura, che nonostante le tematiche dolorose però ti tengono gradevolmente speranzoso e a tratti felice.
Con Besa editrice, l’autrice albanese entra in un circuito letterario di scelta, tanto che se sfogliamo il bel catalogo dell’editrice salentina, ci accorgiamo dello spazio che viene dato a certuni argomenti di valenza superiore alla media.
Già dal titolo, Due volte stranieri, che incuriosisce non poco, Ismete Selmanaj Leba, decide di consegnare una ferita socio-ontologica, che fa davvero male. Ma la grandezza di questa autrice, che vanta numerose pubblicazioni e in Albania e in Italia, tanto che alcuni suoi libri hanno ottenuto il beneficio della traduzione per interesse internazionale e culturale, sta sicuramente in uno stile egregiamente controllato, che mette vivacità ai contenuti.
Senza mai fermarsi a “smielature” classiche per chi voglia addolcire un determinato argomento, la Leba, è anche molto diretta e cruda nel raccontare le vicende di Mirela e Fatmir, una coppia di giovani sposi costretta a scappare dall’Albania verso l’Italia negli anni ’90, quando il regime del compagno Hoxha, da qualche anno morto, elargiva tutta la sua controversia social-comunista, verso una dittatura selvaggia e antisocialista.
Giungevano barconi di disperati che tentavano la fortuna dello star meglio in un paese, l’Italia per l’appunto, che attraverso i suo cittadini, avrebbe dato più pesci in faccia e pugni allo stomaco che emozioni di tranquillità, mostrando tutta la sua ignoranza e tutta la sua flebile bellezza emotiva, che invece è presente nei monumenti del paese più bello del mondo.
Mirela è una giovane insegnante in Albania, mentre il marito è uno specialista di aziende per il lancio commerciale di marchi e prodotti. Il settore vinicolo è la sua inclinazione.
Durante una lezione di Mirela, una sua allieva, la bellissima Ana, viene rapita da un gruppo di balordi nonché brutti ceffi, che troveremo nel libro descritti come la banda dall’ “orecchio tagliato”, e tengo molto a precisare questo binomio, perché questa banda, trasversalmente segnerà tutto il romanzo, ma senza essere citata, se non poche volte. Spetterà al lettore goderne della maestria letteraria dell’autrice.
Seppur i fatti siano drammatici, la Leba, riesce a dare un taglio molto interessante, che trasforma quasi nello stile cinematografico del “poliziottesco italiano” anni 70. Non nascondo che questo parallelismo è molto azzardato (mi rimprovererà l’autrice? Dovesse farlo, mi prenderò il rimprovero!). Certo che la mia percezione e volontà è quella di esaltare le doti narrative che mi hanno permesso di affrontare con leggerezza, a tratti, un momento di storia della nostra civiltà.
Civiltà?
Me lo sono chiesto più volte – Civiltà? -, leggendo e approfondendo, grazie a questo libro, uno spaccato di storia raccontato da occhi e cuore che hanno visto e vissuto la tragedia del comunismo albanese e di ciò che ha lasciato.
Il romanzo non è assolutamente politicizzato, ma l’interrogativo te lo poni: “Ma cosa è questo comunismo che nasce da socialisti convinti e che lasciano strascichi quasi del tutto irreparabili per popoli interi che devono versare lacrime di sangue e anche in eredità devono versarle le loro generazioni?”
A questa ultima domanda, risponderebbe bene il genio della famiglia formata da
Mirela e Fatmir: la figli Ambra. Nata in Italia e vittima di una ignoranza non da poco, che l’ha resa però ancora più forte sin da adolescente.
Ed è il personaggio di Ambra, che mi spinge verso uno degli obiettivi primari di questo bellissimo “trattato”. Perché trattato vi chiederete? Perché la stupidaggine non permette di far conoscere le culture e manda in carcere innocenti, mentre leggendo questo libro sappiamo tante cose su come possano esser interpretati da un paese all’altro alcuni usi… ma non tanto questo, forse la malvagità discriminante è la cosa più grave.
Sapevate che una delle abitudini albanesi per festeggiare la nascita di un figlio di sesso maschile è quello di baciargli il membro, che indica il proseguimento della famiglia? E questo bacio lo danno il padre del nascituro e il nonno?
Ecco, anche questo, che vi ho voluto donare, è raccontato nel romanzo, di Ismete, quando equipe di psicologi, sociologi, assistenti sociali e arroganti vari, portarono un uomo, che la dolce Mirela non aveva mai incontrato, davanti ad un tribunale, pronto ad essere condannato per pedofilia! Ci volle un giudice, per una volta non menefreghista, che convocò storici della cultura e tradizione albanese, per scagionare un uomo messo in croce.
“Due volte stranieri” è molto più di quanto ho scritto. Incroci di bei personaggi – reali -, con bei, solo per l’opinione pubblica o per la toga che indossano, che non lo sono per nulla. Un narrare scottante, crudo, che racconta le ipocrisie e i bigottismi di una Italia, che disgraziatamente, se non ha pensato di farlo prima, o se non l’ha mai voluto fare, oggi dovrebbe chinarsi innanzi ad ogni esterofilo o extracomunitario che discrimina. Smettendo di farlo sentire straniero: due volte!
L’aforisma, il proverbio e il non detto della nonna
Uno degli aspetti che contraddistingue questo bel romanzo (storico) è che nel momento in cui l’attenzione rischia di abbassarsi, puntuale si presenta agli occhi del lettore, un aforisma, un proverbio o un “non detto” che svela in 4/5 parole uno degli episodi accaduti. E il riferimento che fa la protagonista è alla sua amata nonna. Tutto quanto le diceva fu profezia e giovò alla famiglia di Mirela e Fatmir per abbattere le umilianti ignoranze italiote che subirono!