Da La Sicilia del 1° giungo 2023
Se Palermo si gira dall’altra parte
L’intervista. In “Notte, giorno, notte” Beatrice Monroy racconta l’amicizia tra due donne in una città di cemento, mafia e munnizza. «Difficile essere se stessi in un mondo che ci vuole sudditi»
In “Notte, giorno, notte” (Perrone, pp. 147, € 18), Beatrice Monroy presenta la verità dell’inganno ai cittadini. Protagonista è l’amicizia: che valore le dà? «L’amicizia, in particolare femminile, per me è un pilastro. Le amiche sono la vera famiglia ma esattamente come nella famiglia, si determinano spesso delle condizioni di silenzio insopportabili, di non detti, di cose su cui passare sopra perché farebbero troppo male. Nell’amicizia di una vita intera, come quella tra Matilde e Carla, c’è una tale quantità di cose vissute insieme da diventare dei non detti. Si crede che l’altra sia come te ma non è così, come nel momento in cui Carla si taglia le trecce. Diventare altra, rompere per il bisogno di andare nel vasto mondo. L’amicizia dunque è in questo caso un grande bene ma nessuna delle due sa usarla nel modo opportuno. Matilde è piuttosto vittima della mentalità molto siciliana del, niente ci fu, non ti guardare attorno, se subisci un’ingiustizia fai finta di niente.
Carla non è molto diversa da Matilde, solo che subisce uno choc tale che deve per forza cambiare, ma cambia senza capire. Non si sa muovere, anche lei non ha nessuna fiducia nel mondo che cambia. È una solitaria come la sua amica.» Cos’è accaduto con l’istituzione delle Regioni a Statuto speciale? «Sulla Regione a Statuto speciale a mio parere si è poco ragionato in termini di quello che ha significato per le vite dei siciliani. Essere sradicati, finire in città mostri di cemento. Finire in un altro pianeta con l’idea che così non si avevano più i piedi incritati (ricoperti di fango delle campagne). Io penso che sia stato un grande trauma, una ferita di identità e come tale ancora non si è placata. Perché le ferite si trasmettono di generazione in generazione, andrebbero studiate, analizzate.» Il cemento crea città, figlia dello spergiuro dei potenti: una profezia? «Anche qui quello che mi interessava era raccontare cosa ha significato la trasformazione radicale degli spazi urbani in termini direi, un po’ con una forzatura, antropologici. Anche qui nel cemento che svetta al cielo, nel caldo spaventoso per il vento imbrigliato nelle torri di cemento è la disfatta del mondo umano a misura di uomo in relazione con la natura. Niente di più attuale.» Narra di “munnizza”: perché? «Rido, perché noi palermitani di munnizza ce ne intendiamo. Direi che la domanda è (domanda su cui continuo a lavorare) cosa significa vivere tra la munnizza e le rovine? Ritorna il tema dell’identità, chi siamo noi che viviamo tra munniza e rovine?» Chi dice che la Sicilia è dolore è appellato come detrattore: ma si può essere liberi in una regione che non dà nessun beneficio? «E’ una lotta durissima per cercare se stessi, in una terra dove il folclore -a mio parere regola di potere di un mondo altro- tiene tutto sotto controllo. Durissimo e difficilissimo essere se stessi in un mondo che appunto non ci da nulla ma tutto e tutti noi vuole sudditi.» Perché proprio Palermo? «È il posto dove vivo, la mia anima, il mio cuore e la mia disperazione. A me importa questo. Raccontare il sud da sud e come si dice: ‘assud’. Le racconto un piccolo aneddoto, ero in Olanda da mio figlio e i miei nipotini giocavano con una bella bimba. Mi sono messa a chiacchierare con la madre. Sono colombiana, mi ha detto. E io, che bello, di dove? La donna ha avuto un attimo di esitazione, poi, un po’ timida ha detto: di Medellin. Io sono scoppiata a ridere: ma allora siamo la stessa cosa nella narrazione del mondo! Io sono di Palermo! E ci siamo abbracciate. Questo io desidero raccontare.» Ha scritto un romanzo/testamento, lo sa? «Grazie. Romanzo/testamento è fortissimo, la ringrazio molto. L’ho scritto perché io sono ‘assud’ e guardo il mio sud con i miei occhi di donna ferita, dolorante, offesa mille volte e mille volte grata e gioiosa.»