Da La Sicilia dell’ 11 gennaio 2024
Quei militari internati e dimenticati
L’intervista. Letizia Cuzzola in “Non muoio neanche se mi ammazzano” ricostruisce la storia del nonno Vittorio e di 650 mila uomini prigionieri nei campi di concentramento in Germania
“Non muoio neanche se mi ammazzano” (Morrone editore, 2023, pp. 172, € 18,00), che annovera la prestigiosa firma in prefazione di Claudio Cordova, segna il ritorno, dopo due anni di assenza, della scrittrice calabrese, nonché Ceo dell’agenzia “Lettere a Calliope”, Letizia Cuzzola. Un lavoro di ricerca durato quasi un anno l’ha impegnata fino a giungere alla pubblicazione di questo piccolo ma corposo libro. Abbiamo deciso di approfondire con lei alcuni aspetti su come è arrivata a conoscenza di questa sto- ria dimenticata anche dalla storiografia ufficiale. «Stavo scrivendo un altro libro e incidentalmente ho ritrovato l’Arbeitsbucher di mio nonno, Vittorio Cuppari, che è il protagonista del romanzo. In famiglia sapevamo che era stato prigioniero durante la Seconda guerra mondiale ma ne igno- ravamo i dettagli. Ho iniziato ad approfondire più per curiosità che per altro». Poi cos’è successo? «È successo che dietro quel libretto c’era un mondo, un lessico specifico e mai menzionato dalla Storia ufficiale che mi ha portato a chiedere informazioni in decine di Archivi di Stato, a partire da quello di Reggio Calabria a finire al Museo dell’Olocausto di Los Angeles, passando per il Bundesarchiv di Berlino e le Nazioni Unite a New York. Era un puzzle che si componeva mail dopo mail, documento dopo documento e raccontava una storia diversa da quella studiata a scuola. C’erano 650mila uomini che, quando Badoglio annunciò l’Armistizio, erano schierati sui confini esteri e vennero catturati dai Nazisti restando prigionieri per due anni nei campi di concentramento in Germania, ma che sfuggivano agli elenchi ufficiali per un accordo fra Hitler e Mussolini, e mio nonno era uno di questi». In che senso sfuggivano? «Grazie a quell’accordo erano stati classificati non come prigionieri di guerra – quindi “tutelati” dalla Convenzione di Ginevra del 1929 –, ma come Internati Militari Italiani. Erano sospesi in questa condizione, passami il termine ma azzarderei parcheggiati in questo status, perché quotidianamente venivano chiamati a rispondere all’offerta di passare fra le fila dell’esercito tedesco o della Repubblica di Salò, ma per due anni risposero un no netto, senza ripensamenti, pur sapendo che avrebbe significato restare in campo di concentramento con tutte le conseguenze del caso. Subirono l’isolamento, le torture, i lavori forzati pur di restare fedeli alla divisa che indossavano».
La biografia di Vittorio è molto dettagliata, è tutto vero? «Ogni data, luogo, nome è vero. Come dicevo è stato un puzzle da ricompor- re prendendo una tessera da qui e una da lì, d’altronde in appendice si trovano i riscontri per i quali ho ottenuto la liberatoria dagli Archivi. Per la seconda parte è stato fondamentale il diario di Luciano Banchelli, internato con il nonno, che ho avuto grazie alla figlia Luciana, ritrovata anche lei nel caos delle ricerche e a riprova di quanto sia andata a fondo in questa storia». Perché i nostri lettori dovrebbero leggere “Non muoio neanche se mi ammazzano”? «Perché è una storia di famiglia per 650mila famiglie oltre la mia. Perché 80 anni di silenzio su una intera generazione (erano uomini nati e cresciuti conoscendo solo il Fascismo) che ha rifiutato ogni tutela, comfort e la libertà personale per un ideale di libertà più grande merita la memoria. Non possiamo continuare a ignorarli, soprattutto di questi tempi, perché se oggi possiamo stare qui serenamente a parlare anche dei periodi più bui della Storia italiana lo dobbiamo anche a loro».