Da La Sicilia del 30 marzo 2020
«Canto l’amore e le sue leggi»
L’Intervista. Sandro Bonvissuto racconta la passione assoluta per la Roma e per il numero 5 attraverso gli occhi di un bambino. «Il dio denaro ha mangiato il cuore della gente e del calcio».
Sandro Bonvissuto, romano de Roma, scrittore in quota Einaudi che si garantisce il pane quotidiano facendo il cameriere. Da poco è uscito “La gioia fa parecchio rumore”, un incrocio di tematiche socio-culturali che stanno sortendo un successo di lettori di tutte le fasce sociali, verticalizzando con la filosofa sulla bellezza dei rioni dove una maglia calcistica è l’apoteosi ontologica. A chiedergli del libro subito incalza:«È un libro dove si canta il popolo, chi vive senza sapere che lo sta facendo, chi non ha una stanza segreta per i propri sentimenti ma consuma tutto in piazza. In queste pagine si riscatta la vita della borgata».
Come è avvenuto il contatto con l’editore piemontese?
«Dovresti chiederlo a Dalia Oggero editor di Einaudi. Venne a prendermi nella trattoria dove lavoro; era fine luglio, c’erano i tavoli fuori. È cominciato tutto una sera di dieci anni fa».
Questo libro con in copertina il ‘divino’ Falcao, come lo presenti?
«Un semplice libro d’amore. Anche se questa risposta non farà felici i curiosi. Mi ricorda “L’educazione sentimentale” di Flaubert, ma non so perché».
Dunque l’amore…
«È l’argomento più importante del mondo degli uomini, da sembrare, a volte, l’unico. Nei protagonisti del libro ce n’è tanto! Dove vive l’amore? Nello stesso posto nel quale vive la gente, nei quartieri, nei rioni, ma anche in periferia è sempre splendente».
La tua ‘scrittura’ è un’ode: per chi?
«È antidoto contro l’oblio, e non volevo che i protagonisti del libro fossero dimenticati. Queste pagine, non conosco chi le leggerà, sono scritte per degli estranei. I libri hanno vita propria e vanno da chi vogliono».
Stai viaggiando su onde altissime: cosa t’aspetti?
«Niente amico mio, niente! Sono contento di essere riuscito a scriverlo nelle condizioni nelle quali ha visto la luce, questo mi ripaga di ogni sforzo».
Il bimbo che narra e narri, sei tu?
«Non del tutto, è un ragazzino della mia generazione, e in una generazione di ragazzini ce ne stanno tanti, e sono quasi tutti uguali. Il bimbo sono io come potrebbe essere un mio coetaneo».
La Roma, simbolo di attaccamento al proprio territorio o basico di un contesto che non si può spiegare?«La Roma è ciò che rivela al bambino l’amore e le sue leggi; lui ama Lei che è parte integrante del suo mondo, quindi amando la propria squadra ama la propria città, la propria famiglia, i propri usi e costumi. L’amore dato dal protagonista investe tutto e gli ricade addosso. L’amore è il più clamoroso dei boomerang».
Si è perso, a favore del dio denaro, quella appartenenza alla maglia che faceva vivere genuinamente?
«Il dio denaro si è mangiato il cuore della gente, quella del libro è stata l’ultima stagione romantica, nel calcio e nella società, prima della rivoluzione berlusconiana. Dopo di allora solo manager, banche, commercialisti, dividendi, mega stipendi, diritti tv, l’avvento del calcio moderno, il tramonto di ogni bandiera. I casi di cronaca rivelano una volta di più come nella società contemporanea il concetto di comunità abbia definitivamente lasciato il posto a quello di individualità».
Il bimbo, ipnotizzato davanti la numero ‘5’ che al gol contro l’Italia, lo esultare, ma anche ammonire dal quartiere: ma l’amor materno lo conforta. Cosa hai voluto dirci?
«Che c’è un età dell’oro, ed è l’infanzia; lì si determina in buona parte quello che saremo. Un’infanzia piena d’amore, regala al mondo esseri umani più umani. I sentimenti plasmano la gente, fa così l’amore. Anche l’odio. Purtroppo. Riguardo al 5 (Falcao, n.d.r.) il giocatore è un tramite, un pò (concedimi il parallelo) come Gesù con Dio: è uno di noi, però anche no. Ogni ragazzino, ha i suoi riti, che compongono la sua iniziazione, fra questi il guardare sempre e solo al proprio eroe, quello del protagonista è il signore col 5 sulla maglia».
Perché usi soprannomi piuttosto che nomi reali, penso a Kawasaki-Rocca. E Barabba, chi è?
«I personaggi non emergono singolarmente o personalmente, tutto si sfrangia nella comunità, per essere tutti non bisogna essere nessuno. Il nome anagrafico è fiscale, identifica e viene dall’altro, il soprannome non determina, se non per gli appartenenti alla stessa comunità, è il nome che ti da la gente e viene dal basso. Barabba è l’immigrato ante litteram, il diverso. Per il bambino è una finestra su qualcos’altro che non sia il suo mondo: l’imprevisto, la possibilità».
Torniamo alla maglia: quanto è forte sul popolo romanista?
«Un giorno allo stadio uno mi disse: “io pe rimedià i sordi pe annà a vedè aa Roma ho dovuto smette de drogamme”; il vicino rispose: “e io invece ho cominciato a drogamme popo pe aa Roma”».
Inspiegabile e magico l’attaccamento alla maglia. Un libro sincero il tuo: intriso di metafisica per spiegarne la fenomenologia del 5?
«Sull’onestà del libro puoi giocarti soldi, e non li perdi; so quello di cui parlo, e non lo so perché l’ho studiato ma perché l’ho vissuto. Sulla fenomenologia del 5, sono cose che non le so perché le ho vissute, ma perché le ho studiate».