Da La Sicilia del 30 dicembre 2019
Il contemporaneo digitale di Sartori
L’intervista. Dopo il successo di “Sono Dio”, con il nuovo “Baco” lo scrittore questa volta ci indica la strada della divinità analogica e sociale che oggi ci viene imposta di vivere.
“Cosa ha combinato Giacomo Sartori nel 2016 quando ha pubblicato per NN Editore “Sono Dio”, forse iniziamo a rendercene conto adesso. Pochi giorni fa, il libro tradotto da un editore anglosassone è entrato di diritto nella Best Books 2019 del Financial Times; ma non solo, sempre di pochi giorni fa è la pubblicazione per Exòrma Edizioni di “Baco”, libro shock, dove lo stile non è tutto.
La narrazione, leggera, divertente e realista, presenta un ragazzino incapace di non sfogare atti di malessere se non attraverso il morso. Perché? Proprio perché, sia in “Sono Dio”, che sembrava esserci, ma mancava, che in Baco, la leggerezza di cui sopra improvvisamente, come lama affilata sviscera e ci si trova davanti a fare i conti coi tuoi parenti, madre compresa nonostante si attendi e si speri che il professorone che venga dall’altro capo del mondo la miracoli.
In questa enormità letteraria che rimette in gioco la potenzialità del digitale, in parallelo alle capacità speculari dell’essere umano e dell’imporre il piacere della lettura che consegna messaggi importantissimi, Giacomo Sartori, che più volte ci ha impressionato e solo e a 4 o 6 mani, non lo dimentichiamo con quel mostro sacro (e non è una iperbole ma un dato assodato di fatto e di verità) di Marino Magliani in “Zoo a due” o “Animali non addomesticabili”, ci indica la strada della divinità, quella analogica, digitale, sociale: quella che la contemporaneità ti impone di vivere, che tu sia o meno Baco o Dio. Quella che ci preme chiedergli e che con cristallinità ci ha chiarito.
“Sono Dio”, quest’anno tra i best books del Financial Times, a tre anni dalla sua pubblicazione: ti ha sorpreso? È una emozione?
«Sorpresa completa, per quanto mi riguarda imprevedibile, e che mi fa molto piacere; e benvenuta, perché il libro è uscito con un piccolo editore no-profit, e nel mondo anglosassone le recensioni e le segnalazioni delle testate autorevoli aiutano molto: si è visto con quelle precedenti».
Sempre “Sono Dio” è diniego emotivo che provoca una reazione alla stregua del protagonista di “Baco”, l’appena pubblicato per la romana Exorma, che attiva atteggiamenti violenti per liberarsi da alcune sofferenze non sempre palesemente espresse? Si nota infatti l’onirico del dialogo con la madre in coma, che è straordinariamente connesso alla rabbia.
«A differenza del protagonista di Baco non ho ancora morso nessuno, almeno con i denti, anche se forse qualche volta c’è (e allora mordo con la penna, anche se non vorrei). In realtà scrivere è un mestiere duro, e legato a pulsioni inespresse, a sofferenze che non tro- vano rimedi nella vita reale, qualche soddisfazione fa proprio bene. Ma non dimentichiamo che anche il pro- tagonista in realtà scrive, anche se per interposta persona, dettando cioè – come può – alla sua logopedista».
Dove è la quarta stagione in “Baco”? Perché la neghi al lettore che spulcia di primo acchito l’indice?
«Avevo voglia di scrivere, io che ho scritto diverse “tragedie” un libro positivo, con un lieto fine, anche se all’interno c’è molto malessere e anche dolore. Una vicenda che parte in in- verno e finisce in estate, senza parlare dell’autunno che inevitabilmente seguirà. E ogni lieto fine è in fondo un brusco silenzio, una incompletezza».
Il digitale sembra evoluto e messo al pari dell’analogico: in un pollaio di- venuto dimora di una famiglia, cre- scono geni, anarchici buoni, madri che puntano all’Altissimo, mentre lo stesso sta portandosele via a causa di un incidente; in tutto questo un disa- gio organico del protagonista: è sor- do, ma sente, sente violentemente il torpore del dissenso, quello che si percepisce nell’assordante quanto devastante silenzio. E ancora, in tutto ciò, la contemporaneità, che non la scia spazio né ha pietà per alcuno, tant’è che la creatura Baco, pronta a sferrare delitti del pensiero che riconducono a perfette intuizioni alla maniera di Jung, che ti incitano ad “agire” o “fermarti”, tanto tutto è così, né inutile, né essenziale. Dunque, hai perfettamente tracciato, il crollo verso l’abuso della contemporaneità: perché hai deciso di raccontarlo, an- che, con gioiosità?
«Io ho appunto scritto romanzi più foschi, che parlavano della contemporaneità di striscio (era presente come sfondo), e ora mi accorgo che con la “commedia” riesco a trattare con leggerezza argomenti molto seri, e anche drammatici, e centrali per la nostra epoca, sentendomi molto meno limitato, e più a mio agio. Certo quei testi sono stati per me molto importanti, per il mio percorso di persona e di scrittore, ma appunto ora sento il bisogno di parlare della complessità di questa “cosa” che tu chiami contemporaneità, che è assurda e spietata violenza, e direi che moltissime cose legate al digitale si portano dietro queste caratteristiche, che sono forse tipiche di ogni rivoluzione (pensiamo ai disastri danteschi della rivoluzione industriale), e nello stesso tempo dolcezza e umanità. Che ci sono anche nel presente, in ogni persona, andandole a cercare, perché la psiche umana non evolve, rimane sempre la stessa»”.
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