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Paesi Etnei Oggi n. 265 Ottobre 2018. SMF: Marco Iacona “Malepasque”

14 Novembre 2018 - Articoli di S.M. Fazio, Interviste
Paesi Etnei Oggi n. 265 Ottobre 2018. SMF: Marco Iacona “Malepasque”

    

Spietato della realtà che disintegra, certo che una danza o una confessione possano risanare le sorti del pensiero. Marco Iacona, il maggiore studioso italiano di Evola, con una carriera giornalistica per testate nazionali di spessore e conoscitore della “cultura di destra”, libera l’anima e con un sospiro integerrimo, senza troppi fronzoli, restituisce la vista a chi gioca a far l’ipovedente.

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Cultore primo in Italia dello specismo destrorso. Dagli interessi del colonialismo alla dottrina del liberalismo, non c’è un vero exploit nell’intellettuale Marco Iacona, fino a quando sovverti e lasci basiti i molti con una definizione che ha fatto storia: “la guerra [tra destra] e sinistra è finita da un pezzo” e ancora quando approfondisci Julius Evola. Raccontati e raccontaci.
 
Destra e sinistra, in senso tradizionale, non si combattono più. Il capitalismo ha vinto. Ma non è detto sia il male assoluto (sono moderatamente leibniziano). Sono autore di una quindicina di libri, ho dedicato i miei inizi allo studio di Julius Evola, filosofo dellaTradizione. Sottoposto a una quantità indescrivibile di attacchi, figura controversa sullo sfondo dell’intellettualità europea. Evola è una sorta di “test di Rorschach”: ognuno vede nelle sue opere quello che vuole vedere. Sul filosofo stricto sensusi è tendenzialmente perdonisti – anche se i litigi intorno alla figura di Heidegger sembrano smentire questa circostanza, valida fino a ieri l’altro – in linea generale però, se si tiene conto del binomio pensiero-azione, le opinioni si moltiplicano.
Come starebbero le cose?
Si discute a lungo l’argomento razzismo; Evola non era razzista bensì “semplicemente” studioso o teorico della razza, si dice. Ma quante questioni, nebulosamente semantiche, attorno a quel “teorico”.
Tanto che anche Gad Lerner chiede un tuo intervento chiarificatore.
Mi ha chiesto di partecipare a una trasmissione su Rai3 che parlasse appunto di Evola e del razzismo. Oltre a fare il punto della situazione, ho portato novità nel campo degli studi sul “maestro” della Tradizione: grossomodo il periodo che va dalla fine della guerra all’inizio degli anni Sessanta era sconosciuto. Quante sciocchezze si scrivevano. In quante contraddizioni cadevano i cosiddetti esegeti.
Se non sollecitato però, il tuo contributo rischiava di rimanere in un limbo dove solo i curiosi si spingevano per attingere.
Ho lasciato che gli studi su Evola riposassero in una sorta di area latente e mi sono occupato del Movimento Sociale Italiano – a parte i libri di Nello Musumeci (attuale presidente della Regione Sicilia n.d.r.), che non sono studi scientifici, se non erro sarei l’unico intellettuale catanese ad aver pubblicato un libro sul Msi – del Sessantotto – non ne sono pregiudizialmente contro – e di cultura pop, dando spazio anche ai ricordi del periodo adolescenziale, periodo di crescita e di calma “apparente” tra effervescenze ribellistiche e internettiche.
Case editrici di un elevato spessore ti hanno voluto nei loro cataloghi, però l’Università sembra non vedere, ancor di più Catania: perché?
Sì, ho scritto per case editrici di una certa notorietà come Mimesis, Rubbettino e Bonanno; l’Università vero e proprio parcheggio per lacchè e massoni mi ha dato poco (parlo soprattutto della carriera di ricercatore), ma la città dove sono nato mi ha dato ancora meno. Di quest’ultima ho una pessima opinione, riversata nel mio “Malepasque” (Algra 2018), passo d’addio dedicato a una terra che nulla potrà regalare a chi nutre velleità di impegno intellettuale.
“Malepasque”, quasi un intercalare per chi vive in maniera intimista lo sgomento e lo sfracello, osservando impassibile al potere dei forti, senza nulla poter fare. Poi escono altri libri, emuli del tuo, e li ci si confonde, anche sul ruolo dell’editoria. Come si muove la cultura saggista e del ricercatore? Cosa ci consegna Malepasque, che poi altrove rileggiamo in maniera orrenda e scellerata?
L’incipit del libro parla chiaro, a precederlo una frase di Albert Caraco. “Catania immensa area grigia. Di colore grigio di anime grigie. Centro di raccolta di una borghesia stracciona, di un sottoproletariato finto povero, agorà di un massimalismo rozzo e ostentato”. Fiori insomma. La città è spazio chiuso da ogni fianco e ingurgita sbobba conservatrice validata dall’”autorità” del già vissuto e da un deficit di circolazione di idee.
E i rischi di fine e crollo definitivo, vengono avallati da fonti dove forse non ce lo aspettiamo?
Risum teneatis: Musumeci vuole che si studi il “dialetto” a scuola. Sarà la fine della fine. Ricordiamo che borghesia e ceto popolare – se si parla di “cultura” – pescano grossomodo dallo stesso serbatoio verista e furbista (levantino); in Sicilia c’è una sorta di “ceto” unico che va avanti a frasi fatte – basti pensare a quel maledetto Goethe, a Tomasi e ad altri orrori – elevate, ahimè, al rango di Costituzione orale. Un’isola lontana dal mondo, cioè dalla modernità, che non andrà oltre il mezzo secolo di vita. Per fortuna.
Spietato, come giusto che sia un diffusore di stimoli: cosa c’è dietro il “fermento della penna” catanese. Città di scrittori che tritano e ritritano il già esistente?
In Sicilia ogni fenomeno o ente ha una unità di misura a sé. A Catania gli scrittori sono trasmettitori di idee altrui – vecchie di un secolo – pappagalli dal piumaggio misero e schiarito, al più fatui divulgatori d’ignoranza; le scrittrici vagine trascurate e poc’altro; i filosofi, oggi, intrattenitori da circo equestre, gli storici scombinati cabarettisti, i critici banditi dalle pistole ad acqua calda. Non ci sono scuole, le poche, vere intelligenze sono andate via; a suo tempo – nel periodo della fioritura dei veri grandi autori – non era certo al pubblico siciliano che esse rivolgevano i loro scritti. Catania è luogo di scarti, questo troverete su “Malepasque”.
Catania, ma la Sicilia tutta, porto demagogico di esaltazione della ricerca del bello naturale, o invenzione della malconcia e spergiurata fittizia lingua di chi s’erge a paladino di quella scrittura replicata?
La latitanza degli analisti – quelli veri sono schiacciati dal peso del chiacchierume – ha impedito il consolidarsi di un esame corretto sulle condizioni dell’Isola. Basterebbe, per mero esempio, mettere a confronto le opinioni sulla Sicilia prima e dopo il boom economico. È il “miracolo” a dare la spallata alle velleità di quei luoghi sgraziati. La Sicilia doveva divenire, come nel frattempo la Penisola, un’azienda produttrice, un pezzo d’Occidente, una macchina per cosificareil benessere; ma non ce l’avrebbe mai fatta. Da quel momento si inventarono “bellezze”, località di villeggiatura e attrazioni per il gonzo turista. Prima di allora, l’Isola era preda di attenzioni da parte di una manciata di avventurieri d’oltreconfine; un luogo carico di esotismi e per tradizione vice-Grecia (una tradizione dovuta al fatto che la Grecia, per lungo tempo, non fu facilmente visitabile). Ovviamente si fecero i conti senza l’oste e la Sicilia, povera di idee e di mezzi, non avrebbe mai retto il peso di tali responsabilità. Abbandonarla o abbandonarla ai siculistiè oggi un bene, per tutti.

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