Da La Sicilia del 18 luglio 2023
La sperta, la babba e il metatempo
Il debutto alla narrativa della palermitana Giovanna Di Marco, un gioco d’intrecci fra la cultura tutta siciliana tanto di Tomasi di Lampedusa quanto di Bufalino
Sorprende il debutto alla narrativa della palermitana Giovanna Di Marco, “La sperta e la babba” (Caffèorchidea, pp. 186 , € 18,00), titolo che può creare confusione ermeneutica anche per quel doppio binario di narrazione in epoche diverse, fine ‘800 e fine anni ’80, dove di primo acchito sembrerebbe non avere alcun file rouge, se non scoprire ciò che vi apparirà dall’avvolgente lettura di questo bel libro. Frattanto chiediamoci: cosa mai potrà unire le due epoche? Forse tutto ciò che non c’è più ma che scoviamo in un battito di ciglia? Certo che l’autrice ha avuto fegato nello scommettersi al debutto e non possiamo non ammettere che ha anche tantissimo talento, per impostazione stilistica e contenutistica. Approcciandosi al volume troviamo due donne Lucia e Concetta, la prima molto scaltra, la seconda legata a valori di socialità socialista, proprio da miliziana politica. Ma chi è la “sperta”. E la “babba”? Forse ambedue le protagoniste, in quanto una scaltra e l’altra ingenua nel credere a ideologie? Forse, ma è pur vero che il riferimento più alto che la Di Marco pratica sta proprio nella territorialità: c’è sicilianità e sicilitudine, c’è attività e passività, c’è chi crede di farla franca e chi la vuole far franca in onestà fino a quando la vita, seppur in diverse epoche propone, senza che le due lo sappiano un confronto socializzante de intimo.
C’è da ammettere che la Di Marco riesce bene a coniugare neologismi, e lo affermiamo perché non tutti conosciamo certe matrici di termini o locuzioni (proverbi?) siciliani, che appunto apparirebbero come novità per diversi lettori. A tratti sembra scorgere la Teoria della Sicilia ripresa da Tomasi di Lampedusa, dove il cittadino di questa isola, in quanto solo o è furbo (sperto) o è ingenuo (babbo), ma se si traslittera, utilizziamo il termine che vale in letteratura, sul territorio, allora è la Sicilia ad essere babba o sperta e si rilancia pure verso vedute bufaliniane, dove ogni essere umano seppur diverso, seppur con una storia diversa può rientrare in una categoria della terra di Trinacria che è lo specchio delle due facce di una stessa medaglia: l’una compensa o disintegra l’altra, con moralità inesistenti per una e credenze oltre il limite della ragione per l’altra. Ciò che più di ogni altra cosa ci ha colpito di questa brava autrice è lo stile, ne siamo pasionari e ci troviamo davanti a un concetto simile a quello dell’illusionista: ci paralizza davanti all’intersecarsi di immagini e figure retoriche della parola orata e riportata nello scritto o della medesima trascritta, senza creare fastidio e disturbo al lettore che per la prima volta vi si approccia anche a un parere. Tutto spinge verso una decadenza che non si lega però al famoso decadentismo, quanto a una nozione di verità che solo il siciliano può capire: messo con le spalle al muro si scuoterà solo quando nessuno più vi sarà a chiamarne l’attenzione. Tra culture d’isole dentro l’isola, tra frammentazioni di luoghi che sono unitari, la Di Marco consegna al lettore la meraviglia di una sperimentazione ben riuscita che non lascerà traccia di infelicità, piuttosto si sarà ben lieti di attendere altro. E la trama? Credeteci o meno, scopritela voi, perché dicendovi dello stile vi abbiamo consegnato la più alta chiave di lettura che si possa immaginare, certi che un nuovo talento di voci femminili della Sicilia è pronto ad associarsi ai nomi che si sono imposti nell’ultimo decennio.