Da Paesi Etnei Oggi n. 293, Settembre 2021
L’Eco di Cinzia Corsaro e l’astronauta di Riccardo Marra
Letto, riletto, recensito!
Chi è MIA? Un soprannome? Un’entità reale? Una bellezza stupefacente? Il ritorno al vissuto? Un fantasma? Carthago con Cinzia Maria Corsaro nel 2020 ha piazzato un colpaccio editoriale che è tornato ad essere sulla cresta dell’onda. “Eco dell’essere” è un romanzo che raccoglie diverse avventure con diversi protagonisti. È un turbine di emozioni e risate che escavano nell’intimo e profondo recesso dell’animo della super protagonista Margaret. Giunta a un momento della propria vita, Margaret non ha più entusiasmi, ne botte di vita. Ogni cosa è andata, tutto finisce, nulla c’è! Insomma momenti che diverse persone provano, sono sempre più i sofferenti di depressione che hanno smesso anche di godere di un possibile cibo. È in quel crollare sempre più nel vuoto senza fine che il cipiglio della risalita inizia. Accadimenti, emozioni, sopravvivenza, il tutto condito da uno stile molto gradevole e da contenuti che in diversi tratti sono esilaranti. Esce Margaret e incontra una caterva di persone compresa la propria nonna, non si ferma un attimo. L’exploit sicuramente sta nelle serate al pub, ancora risate… ma attenzione, non siamo nel comico quanto nell’ottimismo di riprendere la propria vita. E riprendendo questa cosa succede? Che d’improvviso nel romanzo appare Mia. E chi è Mia? Lo abbiamo scritto in overture, ma certamente avrete intuito che è la magnifica sberla che si da al credere del ‘non possibile’. Un libro quello della Corsaro che ci pone innanzi ai limiti: se cristallizziamo le azioni e i pensieri siamo finiti, e ci sta! Ma se, sempre, improvvisamente nel turbine di novità che non hai vissuto per una vita spunta Mia? Ecco che l’autrice, tra fiction e realtà, auspichiamo noi, rilancia un aiuto importantissimo per le persone: non fermarsi mai a terrori, anzi indagarli, seguirli e anche produrli: e come? E qui il mistero di questo stupendo romanzo tornato in auge e che i tipi di Carthago hanno fatto bene a pubblicare. Ricordarsi non esistono solo psicologi… c’è altro che può ribaltare le situazioni e potrebbe non avere nome. Libro consigliato anche per fine estate e riprendere la routine del lavoro.
L’intervista a Riccardo Marra
Catanese di 39 anni, legato dalla famiglia, dagli amici di sempre e forse anche un po’ dal chiaroscuro al capoluogo dell’Etna. Vive a Roma dal 2006 e, al chiedergli, come mai?, replica «ho scelto l’anno della vittoria del mondiale», ma «in realtà ho concluso lì i miei studi di editoria e giornalismo». E come si è mosso Riccardo Marra, autore del distopico “Giorni da astronauta” (Augh! Edizioni, pp. 161, € 14) uscito a fine luglio 2021, negli anni in cui decide di rimanere a Roma, lo racconta con entusiasmo: «Nel 2011 uno stage a Radio1 Rai mi ha aperto le porte al mio attuale lavoro. Da dieci anni, infatti, collaboro con la Rai per programmi televisivi in qualità di autore, soprattutto di sport». E lì conosciamo bene le mani del giovane concittadino perché appare ad esempio, nel mitico “Novantesimo Minuto”. «Ma non solo» incalza Marra, «lo scorso febbraio ho scritto, insieme all’amico Davide Venturi, “L’Atlante che non c’è”: un programma di letteratura andato in onda in 4 puntate su Rai5. In mezzo a tutto questo continuo a scrivere di musica, la mia vera prima passione». Riccardo Marra nel 2017 debutta nell’editoria con la raccolta di racconti “Sento doppio”, ma è quest’anno che approda al romanzo: «È il mio esordio nel “lungo” – spiega – “Giorni da astronauta” è un romanzo che riflette sul concetto di normalità». E cosa c’entra la figura da protagonista di Fausto Cutugno astronauta? «L’astronauta, in questo senso, è una metafora perfetta. Cos’è normale? Chi decide qual è il modo più giusto di vivere? Di fronte ai diversi guai che gli capitano in quei pochi giorni che torna a casa, lui si dimena: “Sulla stazione spaziale ci sono i protocolli per gestire le crisi, io li conosco bene, li ho usati, li ho insegnati, ho contribuito a svilupparli. Ma sulla Terra? Cosa si fa?”. La storia, insomma, è di un astronauta che si ritrova a passare i tre giorni prima del suo nuovo viaggio nello spazio, nella sua città di provincia. Tra quelle strade pensa di essere una specie di eroe… ne verrà fuori invece con le ossa rotte». Cosa ti ha ispirato questa metafora? «L’ispirazione mi è venuta da un episodio che nulla a che vedere con cosmonauti o robe così. Un’estate ero in barca con mio fratello che di mestiere fa l’anestesista. Aveva passato una notte di inferno in ospedale e ora, di mattina presto, stava con me in costume sulla barchetta. Io pensavo di avere una vita a-normale, venendo da Roma con il mio lavoro in TV, ma lui era decisamente più a-normale di me. Straordinario. Una specie di astronauta». Dovessi consigliarlo alla lettura cosa racconteresti a chi non sa che sei tu l’autore? «Che un astronauta lontano dallo spazio, che gira per la sua città, non è un superuomo, ma è invece il più debole degli uomini. È un supereroe disinnescato, senza tuta e senza casco, gravato di criptonite. Alla fine diventa il più normale degli individui e questo non gli piacerà. Tolta la metafora e l’ispirazione, cosa ti ha spinto a scrivere l’argomento in questione, che dalla lettura si evince divertente, con ritmo incalzante, ma con diversi finali nell’interpretazione del lettore, che lasciano l’amaro in bocca. In sintesi la vita di tutti i giorni di un normale cittadino che non riesce però ad adeguarsi e scrollarsi forse di dosso quel ruolo di astronauta? «Mi piacciono i paradossi. Un astronauta in una città di provincia è un paradosso. Uno che è capace di aggiustare bracci meccanici sulla stazione spaziale ma che ha dimenticato come si rimette la catena di una bicicletta, è un paradosso. E poi i finali non mi sono mai piaciuti, tutto ciò che ha da dire un libro, a mio parere, è nel cuore non alla fine». Perché e per chi lo hai scritto? «Per curiosità, per vedere dove mi avrebbe portato questo personaggio che è a metà tra un superman e un perdente. Altro paradosso, vedi?». Una curiosità: ha attinenze con te o con qualche episodio che ti è accaduto? «Mi colpì molto il film francese “Il condominio dei cuori infranti” di Samuel Benchetrit. Uno dei protagonisti è un astronauta che, in avaria, finisce accidentalmente sulla terrazza di un palazzo in una cittadina della provincia francese. In attesa che la Nasa lo venga a recuperare deve restare per qualche giorno recluso a casa di questa signora che lo tratta come il figlio che ha perso. Dunque, quanto ad attinenze con me, potrei dirti tutto e niente, più niente che tutto». Quanto ti ha aiutato la professione di giornalista, o ispirato a passare da un servizio ad una raccolta di racconti a un romanzo? «Mi hanno aiutato i film che ho visto, i libri che ho letto e il dischi che ho ascoltato. Sono quelli che creano un immaginario a mio parere». Da una decade sentiamo sempre dire che un romanzo è distopico o di formazione. Finalmente ne abbiamo uno vero e ci piace ricordare che chi lo ha scritto è un bravissimo collega giornalista etneo.