Da La Sicilia del 19 agosto 2021
Ritorno a Catania sul filo dei ricordi – Intervista a Giovanni Coppola
In “Una comune storia sbagliata” (Algra, pp. 125, € 10) di Giovanni Coppola, pubblicato lo scorso 30 luglio, l’autore narra di un personaggio che vive la generazione degli anni ’70 e ’80 dove le connotazioni a brand, politica e quartieri era molto sentita nel capoluogo etneo. Giovanni Coppola, è persona nota a Catania per le bandiere che abbraccia e che porta anche fuori dalla terra del vulcano e non molti sanno che è anche autore dell’opera teatrale, che richiamò l’attenzione oltre i confini regionali, dal titolo ‘Morte di un giudice’, in omaggio a Rocco Chinnici. Da un anno, quello del Covid-19 per antonomasia, di Catania si scrive da più parti, più editori, più autori non necessariamente autoctoni, ma ciò che contraddistingue, tra le nostre letture e i relativi apprezzamenti di critica e pubblico (in breve tempo) è quella negazione della distopia nell’opera in questione. Ad oggi si legge nel 90% dei casi, che una narrativa non sia distopica o di formazione: in questo la formazione c’è invece e c’è anche quel differenziamento tra generazioni che Coppola porta in auge senza alcun discrimine. I diversi personaggi ad un certo punto ci si chiede se hanno delle molteplici personalità volutamente descritte, ma senza farne cogliere il distacco, o se kafkaniamente l’autore ha deciso di presentarli così per non far staccare il lettore dal libro:
«Sicuramente» incalza Coppola «dai riscontri dei lettori ho compreso che hanno colto nel segno: alcuni dei personaggi del romanzo, come Franco, l’amico più caro, è un contenitore dove inserisco vicende, personalità e modus operandi di molti modi, persone e vicende che ho vissuto in prima persona o che ho osservato». C’è anche Alfio nel tuo romanzo: «Si, ed è un nome reale. Il protagonista torna da Bologna per chiudere molti sospesi… Alfio è il nome di mio fratello che se n’è andato tanti anni fa e che io ancora non ho del tutto accettato la sua perdita». Di quegli anni è forte la connotazione simbolica, quasi a ricordare, come molti fanno, Gaber quando canta che il culatello è di destra e la mortadella è di sinistra: Giovanni Coppola, e lo ha voluto fortemente in copertina ha connotato simboli come la leggendaria Vespa 50 della Piaggio, o ancora quando ci racconta: «I Levi’s 501 o i Rayban, o le piazze di Catania che ‘erano’ per i giovani camerati, o i giovani compagni; e ancora le partite nei campetti di periferia dove si organizzavano sfide all’ultimo sangue che chi perdeva poi come è comune in quelle idee di chi copriva e difendeva il proprio territorio si vendicava distruggendo il campetto dei vincitori». C’è molto dolore: da Katy a Emilia a Maria Rosa. Di quest’ultima non tradisci la tua vena ironica quando a Delia racconta un fatto importante ma Delia pensa allo smalto per le unghia. «Il dolore che scorre nelle pagine come l’ironia usata, ti confido che è tutto quello mio. Troppi fatti lasciati in sospeso, da lì ho ispirato la figura del protagonista. Morti, fughe ma anche ritorni per chiudere i sospesi. Ma anche quanta idiozia che non si distanzia da oggi». Perché? «Perché i tempi vogliono questo, correre e lasciare tutto futile, senza mai ascoltare. Non si ascolta più come fa Delia con Maria Rosa». Mancano quegli anni Giovanni? «La mia generazione ha preparato la strada alla tua, poi il buio. Ma si torna per chiudere i cerchi». E quando una comune storia sbagliata la vuoi portare a corretta, allora il banale è sconfitto, come non banale è questo romanzo di formazione: possiamo affermarlo!