Da Sicilymag dell’11 aprile 2019
Katya Maugeri: «Oltre le sbarre ci sono persone che cercano un percorso di redenzione»
La giornalista catanese ha pubblicato “Liberaci dai nostri mali”, testo nato da un’inchiesta giornalistica su detenuti e droga: «Ho collaborato con il carcere di Augusta e lì ho capito che volevo raccontare le storie dei detenuti. Oltre gli errori. Lette insieme sembravano una preghiera che esortava al perdono». Sabato 13 aprile la presentazione a Catania
Katya Maugeri
Sabato 13 aprile, alle ore 18.30, il libro sarà presentato all’Ostello degli Elefanti di Catania. Katya Maugeri si confronterà con Claudio Fava e con Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto del tribunale di Catania e componente del Consiglio Superiore della Magistratura.
Quanto e cosa ti ha mosso dentro questo tema, un lungo percorso che vede la luce nel libro?
«Ho collaborato con la casa di reclusione di Augusta anni fa con il progetto teatrale curato dal magistrato e scrittrice Simona Lo Iacono e da quel momento non li ho più abbandonati. Insieme al direttore del carcere, Antonio Gelardi, abbiamo pensato a un nuovo progetto, un reportage, e lì ho capito che erano le storie che volevo raccontare, le loro. Oltre gli errori, gli sbagli, i macigni. Parlare del detenuto e non solo del reato ma del cambiamento che aveva scelto di attuare. Le storie erano interessanti, diverse tra loro e lette insieme sembravano una preghiera, un coro che esortava al perdono: liberaci dai nostri mali».
Liberaci dai nostri mali è un’opera innovativa, incentrata sulla difficilissima identità del detenuto, che in metri quadrati poco consoni alla dignità umana, rende onore a quella inutile azione formativa ed educativa che tale non è e della quale spesso se ne parla con un acume demagogico che fa rabbrividire anche le spalle più larghe e le scocche di carne più aride e dure. La Maugeri svela con schiettezza, il vissuto storico, la memoria dei carcerati intervistati, grazie ai quali si è potuto realizzare questo racconto/saggio/iconema, arricchito dalle foto di Alessandro Gruttadauria, racconto che prende vivacità, se così possiamo definirla, data la durezza dei temi di chi vive quotidianamente ai limiti dell’indottrinamento della follia e altrettanti del paradosso ontologico. La novità rispetto a lavori di altri autori, anche di chi ha vissuto sulla propria pelle l’esperienza carceraria, si concretizza grazie all’ardito atteggiamento dove Katya Maugeri decide di porsi in una posizione di ascolto totale e definitivo: “non giudica e assorbe, tra pentimento e dolore, le storie di sette detenuti che hanno attraversato un personale processo di redenzione”, così si legge nella sinossi riportata nel sito della casa editrice. Assorbire tout-court, senza pregiudizi. La studiosa etnea, superate le sbarre di una casa circondariale, decide di accogliere per prima farle implodere in sé stessa, e poi sfogarle all’esterno: rimpianti e sogni lasciati al di là di una cella da quelle persone che hanno commesso un reato, ma non per questo devono essere etichettate a vita come carcerati, nell’accezione negativa più grave e discriminatoria che vi sia.
Cosa ti aspetti da questo messaggio importante che hai lanciato, assieme al bravo fotografo Alessandro Gruttadauria?
«Liberaci dai nostri mali è un viaggio introspettivo all’interno di una realtà spesso emarginata, come quella carceraria. Vorrei che imparassimo a guardare oltre l’apparenza, al di là dei pregiudizi e delle facili conclusioni che ci allontanano da un valore inestimabile: l’umanità. Servirebbe più curiosità, meno fanatismo social nei confronti di tematiche che ci limitiamo di conoscere da un titolo o da un “sentito dire”. In carcere c’è gente che ha compiuto gesti gravissimi, il mio libro non li giustifica chiaramente, ma tra loro ci sono uomini che credono e cercano di attuare un percorso di redenzione».
Katya Maugeri con uno degli intervistati, foto di Alessandro Gruttadauria
Liberaci dai nostri mali è una opera degna di menzione per l’onestà intellettuale e l’amor vivendi di esseri umani che accolgono il simile, tolti gli errori giudiziari, senza pregiudizi. Persone che ricordano che forme più sottili di emarginazione si presentano anche in altri contesti, emarignazione che spinge il supposto “nemico” verso un suicidio morale, mentale e fisico che abbatte la rabbia per farla esplodere in una depressione dalla quale si rischia di non uscirne mai. La bellezza di questo studio è che racconta la storia di sette detenuti che la Maugeri ha intitolato in modo particolare, a tratti poetico, in ogni capitolo dove è anticipato dalla sua “ora d’aria” all’interno della quale affronta varie tematiche come il suicidio, nuovamente, in carcere, la giustizia riparativa, la tossicodipendenza, la criminalità organizzata, e molto altro che non ci rimane da farci raccontare.
Tu racconti le debolezze, che sfociano in malesseri psichici che si spingono sino al cambiamento comportamentale tout-court di un carcerato: le sue aspettative, i suoi progetti, magari interrotti dall’errore che lo ha portato dietro le sbarre… la fine della vitalità, l’inizio dell’esser zombie. Poi la volontà di persone che vogliono riabilitare queste persone, quasi a non dar conto al pregiudizio, ricordando loro che sono esseri umani. Ma come si fa ad infondere questa fiducia?
«Racconto le loro debolezze legate al macigno che portano addosso, loro non raccontano di essere distanti dai loro sbagli, descrivono quegli errori come zavorre dalle quali è impossibile liberarsi. La fiducia, è chiaro, non possono conquistarla con una semplice chiacchierata. Molti di loro, durante anni e anni di detenzione, hanno avuto la possibilità di confrontarsi con il mondo esterno (attraverso i lavori gratuiti presso enti, grazie all’articolo 21) attraverso impieghi mai conosciuti, ben lontani dal loro modo di vivere, che li ha ridimensionati. Non accade a tutti, è chiaro, ma il cambiamento esiste e il carcere ha il dovere di rieducare i detenuti affinché possano ritornare nella società pieni di vita e progetti da realizzare. Quei macigni non li lasci dietro le spalle, loro ne sono consapevoli».
Un’altra intervista finita nel libro-inchiesta, foto di Alessandro Gruttadauria
Mi azzardo a paragonare il carcerato, marchiato di essere un “galeotto”, a certi giovani che fanno azione politica: sei di sinistra dunque fuori dai circoli di destra e viceversa. Emarginazioni che fanno male all’animus, che creano distinzione, allontanamento, dolore, malessere e appunto pregiudizio. Ti chiedo Katya, perché si continuaa a creare barriere ed annullare il dialogo creando carceri virtuali?
«Le carceri virtuali sono le più pericolose: creano inevitabilmente dei fanatici pronti a danneggiare la persona attaccata. Il pregiudizio nasce dall’ignoranza, dall’incapacità di voler conoscere cosa c’è al di là di un campo tracciato da abitudini e luoghi comuni. La discriminazione porta addosso il marchio che altri hanno scelto perché incapaci di confrontarsi con una prospettiva diversa dalla loro. Il pregiudizio è un limite gravissimo che emargina e lascia fuori l’essere umano alimentando solo odio e il distacco, dalla vita stessa».
Sino a che punto un carcerato riesce a spingersi oltre la voglia di mettersi nuovamente in gioco?
«Un carcerato che ha pagato i propri errori, anche gravi, può aver maturato durante i lunghi anni di detenzione, la consapevolezza che l’aver intrapreso una strada fatta di sangue, compromessi e malavita ha solo inaridito gran parte del suo vissuto, quindi potrebbe desiderare un riscatto sociale. Alcuni dei detenuti intervistati hanno continuato gli studi in carcere, hanno imparato dei mestieri che serviranno a integrarsi nuovamente nella società. Ma è proprio fuori le sbarre la vera prova: vivere in quel cambiamento, nonostante le tentazioni di quelle scorciatoie che conoscono bene, vivere il secondo capitolo della loro vita onestamente. La società dovrebbe scardinare il pregiudizio nei confronti di un ex detenuto e dare la possibilità di rimettersi in gioco».
Vis a vis di Katya Maugeri con un altro degli intervistati, foto di Alessandro Gruttadauria
Tu hai raccontato l’uomo oltre il reato, e questo è ciò che più mi ha emozionato e commosso, posso permettermi di dire che solo l’uomo libero da appartenenze politiche è un uomo che della filantropia e del benessere ne riesce a sviluppare realmente un codice etico che potrebbe salvare dai malesseri sociali?
«Un uomo libero è colui che pensa e che vive senza etichettare, giudicare e condannare nessuno. La libertà è un dono prezioso e a perderla non sono solo i detenuti, anche chi rinuncia alla propria personalità per seguire un gregge mediatico è prigioniero di sè stesso».
Hai detto che Liberaci dai nostri mali non è un libro che giustifica i reati, ma porta in auge le abitudini, i drammi che diventano patologia psichica, con l’intento di riaffermare l’uomo e non lasciarlo marcire nello stigma.
«L’empatia, l’umanità e la consapevolezza di essere storie. Storie diverse, più o meno dolorose, lacerate da azioni compiute con lucidità, siamo storie e dovremmo ascoltare le altre storie, quelle che riteniamo distanti da noi e invece di diverso hanno solo le scelte prese, sono quelle a tracciare inevitabilmente i destini di alcuni. Lo stigma ci rende prigionieri, delle persone circondate da sbarre in quelle “carceri virtuali”. Dovremmo imparare ad ascoltare la vita degli altri, servirebbe molto per comprendere meglio la nostra».